Aldair: «Io vecchio e lui bimbo ma già leader vero»

Aldair: «Io vecchio e lui bimbo ma già leader vero»
di Ugo Trani
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Domenica 28 Maggio 2017, 15:51
Anche il 31 ottobre del 1998, sul calendario personale di Totti, resterà per tutta la vita una data speciale. Il flash back lo fa tornare all’Olimpico, per Roma-Udinese finita 4 a 0: Francesco diventa capitano, incoronazione festeggiata con una doppietta (gran gol al volo di sinistro e rigore piazzato). Non è quella per la prima volta: il 17 ottobre dello stesso anno, gara casalinga contro la Fiorentina, la provò stringendo la mano a Batistuta. Segno pure quello del destino: due anni dopo, fecero coppia per lo scudetto. «Sarò allo stadio e mi emozionerò, commuovendomi, insieme con i tifosi giallorossi. Perché, come loro, l’ho visto crescere. E siamo diventati amici». Aldair, 51 anni e anche lui campione del mondo, si presenterà in tribuna. Anche perché fu proprio l’ex difensore della Seleçao a promuoverlo e a mettergli la fascia al braccio. Per sempre (quasi 17 anni).
Perché decise improvvisamente di rinunciare al ruolo di capitano?
«In quel momento avevo qualche discussione aperta con la società. E non era giusto, magari indirettamente, coinvolgere i miei compagni. In campo, da capitano, non si può essere nervosi o con la testa da un’altra parte. In più non ero proprio abituato. Non mi trovavo a mio agio, essendo straniero»
E’ vero che non le piaceva parlare con gli arbitri?
«Preferivo farmi sentire dai compagni, guidandoli nei movimenti e magari dando loro qualche consiglio. Ero più concentrato sulla squadra e sulla partita».
Con gli arbitri non riusciva a spiegarsi come avrebbe voluto?
«La lingua non mi ha mai aiutato. Quando parli con l’arbitro devi essere chiaro e diretto. Se sbagli, rischi di peggiorare la situazione».
Come mai è stato scelto Totti che, nell’ottobre del 1998, aveva appena 22 anni?
«Semplice. In quel momento era la soluzione migliore per la nostra squadra. Giovane, nato a Roma e tifoso giallorosso. L’ideale per essere capitano. Anche perché ai miei occhi è sempre stato un giocatore importante. Ero certo che avrebbe fatto una gran carriera. E, a quanto pare, non mi sbagliavo. Francesco è nato campione».
Quando ha deciso, si è confrontato con Zeman e con gli altri compagni?
«No, ho fatto di testa mia. L’ho scelto io, dicendo all’allenatore e ai compagni che era la soluzione giusta».
Non è che è stato proprio Totti a chiedergliela?
«In quel momento lui non ci pensava. Non mi aveva mai detto niente. Anche perché sapeva che, prima o poi, sarebbe diventato capitano. Quando gli ho comunicato la mia decisione, ha subito accettato. Ma l’ho preso in contropiede. È stata una sorpresa, a quanto pare».
Quali consigli ha dato al nuovo capitano?
«Gli dicevo di stare calmo e cercavo di aiutarlo. Il capitano deve far star bene gli altri, mettere tutti d’accordo e garantire serenità alla squadra. Non è solo indossare la fascia al braccio».
La Roma dell’ultimo scudetto ha avuto diversi leader: da Cafu a Samuel, da Emerson a Batistuta, da Tommasi ad...Aldair. Totti, tra tanti campioni, è riuscito a mostrare subito la sua personalità?
«Francesco ha portato, fin da ragazzino, sulle sue spalle il peso del grande calciatore. Ma, vivendo quotidianamente a contatto con i big di quel gruppo, è cresciuto in fretta come calciatore e come uomo. Ha acquistato esperienza e soprattutto carisma. Ma il suo carattere è rimasto lo stesso. Non l’ho mai visto discutere con i compagni. Si è sempre fatto capire. E, se doveva affrontare qualche argomento delicato o comunque importante, magari preferiva non farlo in pubblico. Ti chiamava, parlando a quattr’occhi».
Come ha vissuto Totti da compagno di squadra?
«Un ragazzo allegro e spiritoso. Ha sempre scherzato con tutti. E ha preso in giro un po’ tutti. Senza mai essere cattivo, però. O pesante. Un chiacchierone che faceva divertire il gruppo. Ma anche un generoso. Ha sempre coinvolto e rispettato i dipendenti del club».
E fuori dal campo?
«Quando giocavo, l’ho frequentato poco. Questione d’eta. Noi tra l’altro uscivamo tra di noi, tra brasiliani, con le famiglie. L’ho visto di più quando smesso. Anche con Zeman, a cena. A conferma che non ho mai avuto niente di personale nei confronti di quel tecnico. Con lui ho sempre discusso sul modo di stare in campo. Gli contestavo la linea troppo alta della difesa. Ci confrontavamo, insomma, sulla tattica». 
Ha mai suggerito a Totti di provare un’esperienza all’estero?
«Francesco ha avuto tante offerte da grandi club, ma non mi sono mai sentito di spingerlo, conoscendo il suo legame con la Roma e la città, ad andarsene. Nemmeno quando altre squadre italiane erano più competitive della nostra. Voleva vincere qui, non gli sono mai bastati quello scudetto e i successi in Coppa Italia. Ci ha provato fino all’ultimo. E, secondo me, ha ritardato l’addio proprio per insistere».
Gli ha mai consigliato di smettere prima?
«Pensavo che a trentacinque anni avrebbe lasciato. Più o meno facciamo tutti così. È l’età giusta. Solo i portieri sono propensi a fare qualche anno in più, riuscendo ad arrivare ai quaranta. Francesco, invece, ha preferito non fermarsi»
E’ questo il momento giusto per dire addio?
«La carriera, se non hai infortuni seri nella fase finale, non ha mai una fine scritta. Dipende da come stati e da come ti senti. Uno di solito finisce prima. Come ho fatto pure io. Ma c’è pure chi va avanti. Penso a Junior che ha giocato fino a 42 anni con il Flamengo. Anch’io ho provato a ricominciare all’età di Francesco: a quarantuno anni mi chiamò Agostini per giocare a San Marino. Mi ha subito convinto e io ho accettato con entusiasmo. Ho provato, ma non c’è l’ho fatta. Non ero più allenato e mi sono fatto male».
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