Da Cesare e i Germani ai duelli con Merkel, torna la sfida infinita

di Mario Ajello
4 Minuti di Lettura
Sabato 2 Luglio 2016, 00:22
L’importante è batterli i tedeschi. Poi si può anche essere magnanimi con loro, dire che hanno giocato bene e che forse meritavano di più. E lasciarli liberi di riprovare l’impresa quando capiterà, tra qualche anno. Insomma la lezione di Giulio Cesare, il quale li seppe sconfiggere e ben trattare, è la più auspicabile se è vero che il calcio è una sorta di guerra simulata. Scrive il grande condottiero: «Ai Germani prigionieri nell’accampamento Cesare permise di allontanarsi, ma costoro, temendo atroci supplizi da parte dei Galli di cui avevano saccheggiato i campi, dissero di voler rimanere presso di lui. Cesare concesse loro la libertà».

Battere la squadra di Low, Muller e Gomez e poi liberi tutti, ecco. Loro di tornare a casa e noi di restare in Francia. Loro bail out e noi bail in, per usare il gergo bancario che in questa fase divide Italia e Germania. L’ideale sarebbe che stasera i tedeschi si rivelino proprio come li descriveva Tacito, che era umbro, nella sua celebre opera “Germania”: ubriachi e pigri. Purtroppo non lo saranno gli undici in campo e allora toccherà mettercela tutta. Ma senza astio, naturalmente. Come se i tedeschi non ci avessero mai invaso alla caduta del fascismo, come se la tremenda pagina di Cefalonia non fosse mai stata scritta, come se Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana e gli altri orrori non fossero mai avvenuti, come se - molto preveggente - l’ambasciatore francese non avesse detto al nostro ministro degli esteri, Ciano, quando ci alleammo con la Germania: «I tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi».

Oggi c’è la Germania padrona d’Europa, simbolo del rigorismo cui tutti dovrebbero obbedire (anche se i tedeschi sono stati i primi a sforare i parametri di Maastricht) ma l’Italia ha buon gioco nel cercare di rendere più flessibile il quadro economico continentale; nel porsi in posizione dialettica e non acritica nei confronti dell’egemonia di Berlino; nell’insistere, insieme ad altri, sulla Merkel in nome di un’economia europea meno ingessata nell’austerità e più spinta verso la crescita. Anche perché un grande genio letterario, Aldo Palazzeschi, in un libro dimenticato e ora riapparso (“Tre imperi... mancati”, Mondadori), avvertiva già nel 1945 quando quel Paese era un ammasso di macerie: «Italia, attenta alla Germania». Otto von Bismarck era autoritario, Camillo di Cavour liberale ma lo statista prussiano ammirava quello piemontese - le due unificazioni nazionali, italiana e tedesca, si svolsero quasi in contemporanea - e adesso, giocando un po’ con i paragoni, ecco Low che ha parole di stima per Conte (a proposito: anche Camillo Benso era conte): «Grazie a lui, l’Italia non è più soltanto catenaccio», sostiene il ct tedesco. Il quale forse saprà, o forse no, che nel 1866 fu grazie all’alleanza con Bismarck nella guerra austro-prussiana, che l’Italia ottenne il Veneto. Anche se a Lissa e a Custoza l’esercito regio fece pessima figura e anche da quelle vicende deriva quel senso di inettitudine - misto ad ammirazione - che noi ingiustamente trasmettiamo a molti tedeschi.

 
Compreso Bismarck, il quale a proposito della nostra condotta nei vertici internazionali fece un’ironia che i suoi connazionali rispolverano di tanto in tanto in questi anni: «Questi italiani hanno un magnifico appetito, ma pessimi denti». Nella storia di questi due Stati, abbiamo avuto nel 1882 la Triplice Alleanza, nel 1939 il Patto d’Acciaio, dal 1949 la collaborazione dentro la Nato, la non troppo anzi per niente imitata Bad Godesberg da parte della sinistra italiana non diventata socialdemocratica alla tedesca, gli anni di piombo che hanno sanguinosamente impazzato sia qui sia lì tra Br e Raf, il De Gasperi simile in senso positivo agli statisti tedeschi («È un cancelliere austriaco», credeva di offenderlo Togliatti), Mario Monti che del modello germanico non ha preso il meglio, le offese di Berlusconi alla Merkel e i loro pessimi rapporti (Brunetta continua a sostenere che il governo del Cavaliere è caduto a causa del complotto berlinese).

E via così, fino alla relazione molto dialettica, e da parte italiana non sdraiata ma di ammirazione per la stabilità politica, per l’economia, per il lavoro, per l’organizzazione sociale («La Germania è un modello, non un nemico», ha più volte dichiarato il titolare di Palazzo Chigi), che vige tra Renzi e frau Angela.
Alla quale, due anni fa, Matteo ha donato la maglietta di Mario Gomez, quando il bomber della nazionale tedesca giocava nella Fiorentina. Friedrich Nietzsche diceva che «un tedesco è capace di grandi cose ma è improbabile che le faccia». Lungo la storia ciò - nel bene e nel male - non s’e affatto rivelato vero. Ma speriamo che oggi abbia ragione Nietzsche, che la Germania manchi la grande impresa e che le si possa rivolgere uno tschussone, ossia un ciaone.
© RIPRODUZIONE RISERVATA