Hashtag United e dintorni: il calcio dei sogni nasce sui social

Hashtag United e dintorni: il calcio dei sogni nasce sui social
di Gianluca Cordella
4 Minuti di Lettura
Lunedì 23 Luglio 2018, 07:30
Squadre amatoriali che alzano trofei a Wembley, club immaginari con più followers di quelli reali e società virtuose che, in tempi di fallimenti a raffica e ricorsi al Tas, provano a vincere spiegando ai propri avversari come si fa. Chi pensava che la rivoluzione social avrebbe cambiato il calcio solo a livello di comunicazione fa la fine dello stolto che guarda il dito del saggio invece della luna. Idee, sogni e ambizioni proliferano in Rete e a volte capita che prendano corpo. Per intuizioni, coincidenze o, ahinoi, tragedie. Come la morte di Joe Surtees, un ragazzo malato di leucemia. Joe era amico di Spencer Owen, YouTuber inglese da un milione e mezzo di seguaci, con la mania di filmare il calcio, dalle partite vere del West Ham a quelle dei suoi amici su videogame. Per ricordare l’amico scomparso, Spencer organizza una partita di calcio a Chemlsford, nell’Essex in cui vive, chiamando a raccolta i suoi colleghi YouTuber e poi la pubblica online. Arrivano centinaia di migliaia di visualizzazioni, accompagnate spesso dallo stesso commento: «questa è l’essenza del calcio».

LA SCINTILLA
È la scintilla che manda in fiamme l’immaginazione di Spencer. Decide di dare seguito a quell’esperienza e, chiamati ancora a raccolta gli amici di sempre, fonda l’Hashtag United. L’idea è semplice: raccontare le partite a calcio con gli amici come se fosse un match di Champions. Così l’Hashtag - che per sua natura unisce avvocati, consulenti finanziari, YouTuber e carpentieri - inizia a sfidare formazioni altrettanto improvvisate: si spazia dagli studenti universitari ai magazzinieri delle squadre di calcio della zona. Ogni match viene raccontato con un ricco prepartita, gli highlights della gara e le interviste nel post-match. Le riprese sono in Hd e la partita è accompagnata da tutte le grafiche di rito: formazioni ufficiali, schieramenti in campo e statistiche dell’incontro dopo il 90’. Il tutto confezionato in minifilm di un quarto d’ora. Il successo è istantaneo e pazzesco. Il canale YouTube della squadra arriva in breve a sfiorare i 400 mila iscritti, ai quali vanno aggiunti quelli che seguono la squadra dal profilo di Owen. La situazione sfugge di mano al punto che l’Hashtag, per motivi di ordine pubblico, non può più comunicare dove e quando giocherà la prossima partita, onde evitare il riversarsi sui campetti di periferia di centinaia e centinaia di supporter. Per aumentare il tasso tecnico della squadra lanciano il talent Hashtag Academy, al quale si presentano in 20 mila. Segnale che il fenomeno continua a crescere: firmano con Umbro per le divise ufficiali, la Coca Cola li porta in tournèe negli Stati Uniti, ma si esibiscono anche in Serbia, Irlanda, Scozia e Spagna. Per loro si spalancano le porte di Wembley, dove sfidano celebrità e vecchie glorie e raggiungono i 40 milioni di visualizzazioni. Con loro o contro di loro hanno giocato, negli anni, Gerrard, Fowler, Heskey, Gallas e Pires. Fino al giugno scorso, quando la Federcalcio inglese li inserisce nella piramide del calcio nazionale e li trasforma in squadra vera. «Tra nove anni potremmo essere in Champions», scherzano loro, che intanto provano pure a convincere lo svincolato Zlatan Ibrahimovic a giocare per loro. Gratis. Ibra ha scelto l’America e loro si tengono stretta la loro Eastern Senior South League dove traghetteranno in una nuova dimensione un’intuizione visionaria e un po’ folle.

OLTREOCEANO
«Il calcio non è fatto per essere praticato, ma consumato». Questa frase che Shawn Francis, ex social media manager della MLS, rivolge al chitarrista Ian Perkins, stravolge invece il rapporto tra calcio e social dall’altra parte dell’Oceano. Perkins si è appena trasferito nella piccola Ausbury Park, cittadina del New Jersey omaggiata da Bruce Springsteen - che lì visse prima del successo - nel suo primo album. E si lamenta sui social dell’assenza di una squadra di calcio locale. Francis gli risponde. E nasce l’Ausbury Park Fc. L’annuncio arriva sui social, insieme alla presentazione delle maglie e ai loghi ufficiali. Il successo è immediato e le maglie vanno a ruba. Tutto normale se non fosse che la squadra non esiste. Potrebbe sembrare l’audace lancio di un marchio di abbigliamento, ma Ian e Shawn non si limitano a questo. Sul web l’Ausbury Park Fc vive come una società vera: ci sono i comunicati stampa sull’ingaggio di improbabili giocatori - poi «licenziati dopo aver dato vita a una rissa nel bar del paese» - e persino il rendering del nuovo stadio che fa gridare allo scandalo una parte di stampa particolarmente disattenta ai fatti locali: il progetto collocava il nuovo stadio sul tetto dell’edificio più famoso della città... Ma, sempre negli States, c’è anche chi il calcio lo gioca per davvero, declinando ulteriormente l’uso dei social. È il caso del Kingston Stockade, club dello Stato di New York, militante nella National Premier Soccer League, quarto gradino del calcio americano. Un club virtuoso che è partito dal basso nel 2016 ed è già riuscito a qualificarsi per la coppa nazionale. Perdendo al primo turno, ma non importa. Ciò che conta è la volontà di indicare la via agli altri, avversari compresi. Per questo il Kingston si definisce primo club “open source” della storia. Tutto ciò che avviene dietro le scrivanie societarie, dalla gestione dei conti all’organizzazione delle trasferte, finisce online per dare una mano a chi vuole avviarsi nel mondo del calcio ma non sa proprio da dove cominciare. Se non è social questo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA