Roma-Napoli, troppi rancori ma sia battaglia solo in campo

di Piero Mei
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Giovedì 2 Aprile 2015, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 09:15
La mamma di Ciro ha detto che «il calcio è un gioco, bisogna vivere e non morire per lo sport»: è vero, ma qualche volta, troppe volte, non è stato così, fosse una soltanto sarebbe già di troppo ma sono di più.

Il suo dolore di mamma ce lo mostra ogni giorno, perché Ciro è Ciro Esposito, il ragazzo che tifava Napoli e che è stato ucciso a Roma durante scontri mai chiariti, mai forse davvero prevenuti, quando si giocava la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, quella che si disputò solo dopo l’autorizzazione di Genny ’a carogna. Ma Antonella Leardi, è questo il suo nome, non ha mai smesso di chiedere che non si cerchino vendette e che si scoprano verità e responsabilità e si arrivi alla giustizia.

Non è chiedere la luna: non lo sarebbe in un calcio normale, in un tifo normale. Dunque non deve esserlo il sabato di Pasqua all’Olimpico quando, all’ora di pranzo, la Roma e il Napoli si affronteranno in una partita che può valere la stagione: perché la Roma sente il fiato sul collo della Lazio che straripa a mille all’ora e il Napoli, se perdesse il passo, perderebbe molte delle speranze che ancora nutre di conquistare l’ingresso per la prossima Champions. Si capisce, dunque, che il match che verrà è particolarmente delicato dal punto di vista del risultato sportivo e dell’influenza sui bilanci societari, ed è questo il tempo nel quale le due cose vanno di pari passo, intrecciate da quando non ci sono più i “ricchi scemi” come venivano irrisi i presidenti di una volta. Ricchi, nel senso di spargitori di soldi, non ce n’è più.





“Ciro vive”, è il titolo del libro della mamma appena presentato, e dice che il suo ragazzo ci ha lasciato «un messaggio, un sorriso». Raccoglierli, il sabato di Pasqua, sarebbe bello, magari in quel clima di serenità che ha richiamato il presidente del Coni, Malagò, pur se l’aggettivo “sereno” ha da qualche tempo un suono di amara ironia. Ma il sentimento da vivere non può averlo. Certo, l’assenza dei “tifosi ospiti”, scelta di ordine pubblico, è l’ennesimo segnale dell’età del malessere che il calcio sta vivendo da tempo: però la prevenzione è sempre la miglior scelta, nell’attesa che una vera educazione sportiva s’affermi, aspetta e spera ma si continua a sperare.

Si può andare con nostalgia ai Roma-Napoli (o viceversa) d’una volta, alla via Appia, ché non c’era l'autostrada del Sole, che si riempiva di canti e suoni, trombette e tricche e ballacche per il derby del sole o del sud come veniva chiamato specie lassù al nord, nel triangolo d’oro degli scudetti. Il ciuccio d’accompagnamento qualche volta ragliava, qualche altra nitriva e ci si divertiva allo stadio e allo sfottò. Il che non è più. Anche il tifo è 2.0 ed ha perfino la violenza indistinta del web che talvolta scatena ogni anarchia.

Mai ci si stancherà di dire che è solo una partita di calcio, ammesso che altro ci sia che giustifichi la violenza (il che non è, ma lo sport meno che mai): si può essere tifosi, anzi il tifo è un sentimento d’amore positivo; si può essere avversari, ma c’è bisogno di essere nemici? Che bisogno c’è di aspettarsi in qualche spiazzo urbano per picchiare, picchiarsi fino a uccidere? Sparare perfino? Se Ciro vivesse non solo nel cuore e nel dolore della mamma e fosse in curva nord a cantare il suo Napoli sarebbe assai meglio e i ragazzi della sud, il popolo giallorosso, potrebbero cantargli contro, ammesso che di questi tempi anche sportivamente grami per la Roma, abbiano voglia di cantare.