Re Cecconi, 40 anni fa la morte del campione laziale per un tragico scherzo

Re Cecconi, 40 anni fa la morte del campione laziale per un tragico scherzo
di Piero Mei
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Mercoledì 18 Gennaio 2017, 16:58 - Ultimo aggiornamento: 19 Gennaio, 17:47

ROMA - Chissà se davvero ha avuto il tempo di dire quella che sarebbe la sua ultima frase “era solo uno scherzo”, quarant’anni fa, in una gioielleria del quartiere Fleming, nella quale Luciano Re Cecconi fu colpito a morte dal gioielliere Tabocchini, già rapinato in precedenza e svelto a sparare contro quella zazzera bionda oltre il bavero alzato.
 

 

Chissà neppure se abbia mai detto, Cecco (Cecconetzer lo chiamavano dalle parti sue, a Nerviano, proprio per via della capigliatura che ricordava il tedesco Netzer) “Questa è una rapina” entrando nella bottega in compagnia di Pietro Ghedin, che giocava con lui nella Lazio, e dell’amico profumiere che doveva fare consegna di merce. Luciano, a quell’ora quasi di chiusura del negozio, era, pare, il secondo della fila. Già che parlasse di rapina il secondo, e non il primo a entrare che era Ghedin, può suonare strano a un pensiero normale: ma non sai cosa passa per la testa in quei momenti, nessuno può giudicare a freddo quel che avviene a caldo. Sta il fatto che Ghedin, su cui per primo si puntò la pistola, tirò subito le mani fuori di tasca, Cecco non fece in tempo. E ne morì.

Non aveva ancora trent’anni ed era un campione: un campione vero, giacché era stato di quella Lazio di Maestrelli che vinse il primo scudetto biancoceleste sul campo (lasciamo stare la Grande Guerra), anno 1974; ma che soprattutto vinse in amore, giacché piaceva il suo gioco, piaceva quell’aria da squadra di amici profondi, e profondissimi nemici quando c’era da prendere a schiaffi chi andava per conto suo, una Lazio splendida e litigiosa, viva e inconsapevole di andare incontro, dopo la bellezza di quello scudetto, a una serie infinita di disgrazie, quasi dovesse pagare, chissà perché, la magnifica vicenda di cui s’era resa protagonista.

Erano anni di piombo e di paura, anni di armi facili che nemmeno l’America di oggi. Quel 18 gennaio 1977 era di martedì: Re Cecconi era prossimo al rientro in squadra, dopo un lungo infortunio. In quello spogliatoio, perfino esageratamente goliardico, rasente al bullismo, giravano scherzi ed anche armi, dicono. Re Cecconi lo chiamavano “il saggio” giacché a questo clima rifuggiva. Il calcio l’aveva imparato all’oratorio di Sant’Ilario Milanese, quelli non erano tempi di scuole calcio, di schemi da imparare subito, 3-4-3 o altre diavolerie pseudoscientifiche; l’aveva imparato bene, tanto bene che nel suo peregrinare per l’Italia, giorni di Foggia e giorni di Lazio, aveva saputo conquistare tutti ed anche la maglia azzurra, che era nelle mani di uno che capiva, Fulvio Bernardini detto “il dottore”. Lasciamo stare l’infelice esperienza con Valcareggi a Germania ’74 e il celebre “vaffa” di Chinaglia al ct.

Racconta l’aneddoto che quel Re non fosse nel cognome di famiglia fino all’Ottocento, quando Vittorio Emanuele II, dopo la battaglia di Magenta, volle gratificare la gente del luogo che aveva sostenuto lui e la nascente Italia, consentendo di premettere al cognome naturale quel Re. Era nato povero Luciano che la mattina andava a scuola e il pomeriggio a lavorare da garzone o da meccanico e non c’era che l’oratorio per quel gioco meraviglioso che era (ed è) il pallone, da non muovere con il joystick ma con i piedi (e con la testa).

Era il calcio un gioco meraviglioso, come la vita: che finì per lui quando non aveva ancora trent’anni in un lettino dell’Ospedale San Giacomo di Roma, ma che forse era finita sul pavimento di quella gioielleria del Fleming.
dove forse disse, e forse no “questa è una rapina”, e dove sussurrò, forse sì e forse no, “era solo uno scherzo”. Che atroce scherzo, per un grande calciatore e grande uomo e per tutti quelli che l’hanno ammirato e amato e anche per quelli che tifavano contro.

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