Totti e la Roma, un’infinita storia d’amore. Francesco e il club giallorosso restano una cosa sola

Francesco Totti con il fratello Riccardo
di Piero Mei
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Martedì 7 Giugno 2016, 18:04 - Ultimo aggiornamento: 18:05
Avrà firmato con la stessa emozione che lo ha lasciato ritratto bambino a bocca aperta e quella scrittura infantile, la “T” come usava una volta, non con la verticale e il taglio alto, la “F” da bella calligrafia, il totale di Totti Francesco, quando siglò il tesserino n° 097264 della Federazione Italiana Giuoco Calcio, stagione 1985-86? Magari no, ora che è un ragazzo di quasi quarant’anni: ma con lo stesso amore sì, giallorosso.

Una stagione ancora: almeno. Ci ha pure scherzato su, lanciando l’amo del chissà, perché la storia d’amore fra Totti, la Roma e tutti i suoi cari è una di quelle che non finisce di finire e mai dire mai e tutto quanto. Ci si augura che la presenza o l’assenza del Capitano, gli scampoli di partita, gli sgoccioli che forse gli saranno riservati, e lui lo sa, siano di quelli che si sono visti mentre la stagione e la Champions diretta se ne andavano (se non se n’erano già andati prima ancora che Totti venisse richiamato alle armi, a furor di popolo e di gol), il sì o il no, non costituiscano l’oggetto di una contesa. Non lo merita Totti, che pure in tanti anni di romanismo e romanità è sempre stato al centro d’ogni discussione, la salvezza della Roma per la maggioranza, la rovina per pochi altri.

Ci sono persone che sono passate dalla cabina telefonica che allora imperava, dal gettone introvabile, allo smartphone o all’iPad di ultima generazione sempre in compagnia di Totti. Una evoluzione continua: Totti in campo è stato, ed è, sempre un attimo avanti all’avversario: non come posizione, ma come idea della giocata da fare. Un campione in anticipo e d’anticipo.

Un pallonetto, un aquilone, un cucchiaio, un colpo di tacco, un colpo di testa: un colpo di genio, sempre o quasi. I numeri parlano chiaro: la conta dei gol, il conto in banca anche. Non c’è stato, né più ci sarà, un giocatore che così si sia identificato con una squadra, una città, un’etnia perfino, quella dei romani a qualsiasi fede calcistica appartenessero o appartengano. C’è del Totti in tutti i romani. Quell’ironia e quella strafottenza, quel fare le cose alla grande: un rigore a tempo scaduto, un selfie con la curva, un dialogo a distanza con l’amata donna e con la meno amata tifoseria avversa, un ciuccio da buon papà, un’irrisione altrui da trasformare in forza propria. Una leggerezza mentale che ti consente di attraversare la vita e il campo da gioco. Bei gesti e gestacci, tanti dei primi e pochi dei secondi, e lo schema preferito: datela a Totti, ci pensa lui.

Vuol pensarci ancora, potrà pensarci un anno ancora. L’ammainabandiera può aspettare e aspetterà. S’è legato ai pini di Roma per non ascoltare mai le voci delle sirene che cantavano in spagnolo, francese, inglese, in dialetto meneghino (la erre moscia torinese non s’è mai neppure azzardata, sapendo la risposta). Totti e la Roma erano e restano una cosa sola: quel che Dio ha unito l’uomo non separi si diceva del matrimonio indissolubile. Nemmeno se è il dio del calcio e se l’uomo è un businessman americano. Del resto, a parte il lato splendidamente romantico della vicenda, Totti è pure un business, per Francesco e per la Roma.

E’ l’anno delle favole romane: Ranieri e il Leicester, Totti e la Roma.

 
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