Alessandro Campi
​Alessandro Campi

Un anno di governo/Gli imprevisti della politica che richiedono cambi di rotta

di ​Alessandro Campi
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Lunedì 25 Settembre 2023, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 22:24

È un buon governo, si ripete, solo quello che mantiene le promesse elettorali. Serve una significativa corrispondenza tra il dire prima del voto e il fare quando si è nella stanza dei bottoni. Altrimenti gli elettori, che già non credono più a niente, si sentono traditi dai loro rappresentanti.
Ma attenzione a non trasformare quest’idea, giusta in astratto, in un ritornello polemico. Tra il promettere e il realizzare, infatti, c’è di mezzo la realtà, cioè la contingenza, che manifestandosi in forme sempre non previste cambia fatalmente le carte in tavola. E dunque buon governo (e buon politico) è anche quello che messo dinnanzi a circostanze inedite prova ad affrontarle nel migliore dei modi. A costo di cambiare il linguaggio e le posizioni di un tempo. La coerenza in politica, per definizione regno dell’incertezza e dell’imponderabile, è una virtù che facilmente può trasformarsi in errore.


Al governo Meloni, nel primo suo anno di vita, di accidenti ne sono capitati diversi: il collasso geopolitico del nord Africa, con connesse catastrofi ambientali e climatiche, e il riacutizzarsi nella crisi migratoria; il perdurare della guerra russo-ucraina, a dispetto di tutte le speranze di pace; il crescere della spirale inflazionistica, peraltro mal gestita dalle autorità finanziarie internazionali; la Germania in recessione insieme a tutte le altre economie europee. Sfortuna? Complotti dei nemici? No, è semplicemente la storia che ha preso una forma e una direzione diverse rispetto alle previsioni o alle attese.

Ma se cambiano gli scenari, non immaginabili in questi termini dodici mesi fa, debbono necessariamente cambiare le priorità. Lo si è visto con le improvvise difficoltà nei conti pubblici. La crescita stimata del Pil non si è realizzata. Le risorse sulle quali fare affidamento, anche a fini di redistribuzione sociale, si sono drasticamente contratte. Che fare? Mostrarsi coerenti con promesse non più sostenibili? Forzare il bilancio statale sino a incorrere nelle sanzioni dell’Europa? Oppure adottare misure prudenti e rigorose in attesa di tempi per tutti migliori, avendo peraltro l’accortezza di spiegare l’amara verità ai cittadini?


La via imboccata dal governo, quella del pragmatismo o realismo economico, è stata secondo molti un cammino obbligato più che una scelta volontaria. Ma non cambia la sostanza. Chi si aspettava un esecutivo avventurista, attento al consenso immediato più che all’equilibrio dei conti pubblici, si è dovuto ricredere. All’inizio si ironizzava sul draghismo di facciata della Meloni, adottato solo per darsi all’estero una parvenza di affidabilità. In realtà, su questo versante sembra intervenuto un cambiamento di mentalità profondo e convinto: in un mondo economicamente in tempesta non si governa con la spesa facile o giocando a fare gli illusionisti, ma facendosi guidare dal senso di responsabilità. Nell’immediato si rischia il mugugno anche dei propri elettori, ma nel lungo periodo il guadagno elettorale è assicurato.


Esattamente lo stesso cambiamento intervenuto sui temi internazionali. Ad esempio, con l’opzione euro-occidentalista nella scelta tra Kiev e Mosca. Non era scontata e sembrava anch’essa una decisione opportunistica adottata controvoglia viste le pregresse simpatie putiniste circolanti nel centrodestra italiano. E’ invece diventata un’opzione strategica e non negoziabile intorno alla quale Giorgia Meloni ha operato una fitta e proficua tessitura diplomatica che l’ha molto rafforzata.


Ma lo stesso può dirsi dei rapporti con l’Europa. Ci si aspettava, giocando sul mantra del sovranismo, una sorta di scontro permanente con Bruxelles. La Meloni ha invece preferito adottare, ancora una volta sul filo del pragmatismo e del buon senso, lo strumento politico-negoziale, nella convinzione che sia l’unico in grado di garantire la difesa effettiva dei legittimi interessi nazionali.

In realtà, capita spesso di leggere che l’Italia è isolata sul piano internazionale, ma francamente non si capisce, per come sono andate le cose in questo primo anno di permanenza a Palazzo Chigi, se sia una notizia data con dispiacere o un auspicio che nasconde una grande frustrazione per il fatto che il governo si è comportato diversamente da quel che prevedeva il “Manuale del cattivo populista” in uso in molte redazioni giornalistiche.


Abbiamo accennato alla crisi migratoria, il punto sul quale sembra in effetti massimo lo scollamento tra ciò che il centrodestra prometteva, blocchi navali e frontiere chiuse, e ciò che ha fatto a fronte dei continui sbarchi sulle coste italiane. Anche in questo caso, viene da dire, la realtà si è dimostrata più forte della propaganda. Ma è curioso quel che però dicono i sondaggi. I partiti di governo, in difficoltà palese nella gestione dell’immigrazione, non perdono voti, e di converso non ne guadagnano le opposizioni che quotidianamente gridano al fallimento su questa materia. Probabilmente l’opinione pubblica ha capito, diversamente da molti analisti, che dinnanzi a quel che sta accadendo le responsabilità del governo italiano sono inferiori a quelle di un’Europa che, invece di studiare soluzioni unitarie e innovative, da anni si limita a dare lezioni non richieste di civiltà e morale al prossimo.


Anzi, a dirla tutta, è stata propria l’Italia, in questi ultimi mesi, ad avanzare su questo tema proposte che vanno in direzione di un crescente impegno europeo - economico e politico-diplomatico - nei confronti dei Paesi africani come unico modo per provare a frenare e regolarizzare i flussi migratori e sottrarli al controllo dei gruppi criminali transnazionali. Proposte non facili da realizzare nell’immediato, ma che sono servite a mostrare come il patriottismo spesso declamatorio della destra italiana sia davvero poca cosa rispetto al sovranismo de facto di Paesi quali la Germania o la Francia. Se noi predichiamo male, loro razzolano malissimo pur non dandolo a vedere.
Detto questo non facciamola facile. Le contingenze avverse di questo primo anno, che hanno certamente frenato i piani riformistici del governo in materie quali il fisco, la giustizia o le riforme istituzionali, si sono sommate anche con difficoltà tutte interne all’esecutivo.


Ad esempio, la rincorsa a destra della Lega alla Meloni. Sinora si è mantenuta entro limiti accettabili. Ma ci vuole poco a superarli trasformando così una competizione fisiologica, soprattutto nella prospettiva del prossimo voto europeo, in uno scontro politico e personale dagli esiti potenzialmente pericolosi per l’intera coalizione.
Così come la questione, molto discussa, di una Meloni accusata di fidarsi solo di famigliari e amici di antica data, dando così la stura, in tempi di antipolitica ancora galoppante, ai peggiori retropensieri. In sé la questione si spiega facilmente: è una tendenza tipica di tutte le comunità politiche militanti, fondate su una base ideologica forte e condivisa, quella a sovrapporre le relazioni personali e affettive con quelle politiche. Da un certo punto di vista, è un punto di forza, nel segno della condivisione di un progetto che è essenzialmente politico e non soltanto personalistico, come accade per molti altri partiti odierni. Ma potrebbe in effetti diventare un limite se la Meloni - come è capitato ad altri leader anche nel recente passato - finisse per chiudersi troppo all’interno di una cerchia di fedelissimi rischiando così l’isolamento. La realtà si governa solo avendone una percezione autentica e diretta, non mediata o, peggio, edulcorata.

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