Che per Putin l’eventuale successo tattico costituito da una rapida invasione dell’Ucraina sarebbe stato estremamente difficile da convertire in un successo strategico stabile e duraturo era una facile profezia. Che i tempi del rovesciamento delle fortune del Cremlino sarebbero stati così repentini, invece, costituisce, una sorpresa. L’ampiezza e l’irreversibilità del fallimento russo è clamorosamente evidente nella inedita decisione europea di inviare aiuti militari a un Paese in guerra e nell’acquisita consapevolezza che i tempi della “Europa potenza civile” sono definitivamente alle spalle. La pretestuosità dell’attacco contro Kiev ha sancito la necessità ormai improcrastinabile per l’Unione Europea – e per i suoi Stati-membri – di dotarsi di uno strumento militare convenzionale adeguato al presente livello della minaccia. È un passo decisivo per la crescita di statura politica dell’Unione e per la possibilità di relegare i sovranismi nella bacheca delle elaborazioni ideologiche arcaiche e inadeguate ai tempi.
Questa volta è il recupero della dimensione della sicurezza collettiva contro le vere invasioni – non quelle fantasticate dei migranti – a fornire argomenti per un’unione più ampia e profonda.
Credo sia evidente che il contesto della sicurezza europea sia cambiato, così come è cambiato quello della stessa sicurezza globale, considerando la statura politica, militare ed economica degli attori direttamente o indirettamente coinvolti (la Russia, l’Europa nelle sue molteplici configurazioni, gli Stati Uniti, più sullo sfondo anche la Cina). Comunque vada a finire la guerra ucraina, non si tornerà allo status quo ante e neppure a una nuova edizione della Guerra Fredda. Le differenze rispetto ad allora sono principalmente due: 1) l’interdipendenza economico-finanziaria globale che, seppur danneggiata dalla pandemia e dalla guerra, rimane e spiega la dolorosa efficacia delle sanzioni alle quali Putin ha reagito con l’unico argomento a cui affida la sua visione internazionale, quello della forza militare, evocando l’armageddon nucleare; 2) il fatto che in questo caso non siamo di fronte a un’azione militare (diretta o indiretta) operata all’interno di sfere di influenza reciprocamente riconosciute per impedire la defezione di uno “Stato-cliente” (come in Guatemala nel 1954 o in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 o in Cile nel 1973 o in Polonia nel 1981), ma assistiamo invece all’uso della forza per portare sotto il proprio controllo un Paese che non lo è più da tempo.
Per nulla paradossalmente, è la dimensione “ideale” (in questo senso “ideologica”) del confronto che, seppure non nettamente stagliata come nella stagione della lotta tra le democrazie e i totalitarismi, appare destinata a rinforzarsi: in questo coinvolgendo anche la Cina e l’Indo-Pacifico, dal punto di vista geografico, e implicando una ricerca di nuovi equilibri interni rispetto alle forze di mercato che riguarderà tutti i diversi sistemi politici, comprese le autocrazie.