​Greta Cristini

Crisi di consenso/ A chi "parlano" le minacce del Cremlino

di ​Greta Cristini
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Giovedì 28 Marzo 2024, 00:11

Il credo nel protagonismo occidentale spesso induce nella tentazione di interpretare le cose del Mondo Russo (Russkij Mir) con lenti sbagliate, le nostre. Lo facciamo in tempi ordinari e continuiamo a farlo dopo oltre due anni di amministrazione straordinaria causa guerra nel Vecchio Continente, e dopo un attentato terroristico nel cuore del paese più grande al mondo, al nostro fianco Est. Così la dichiarazione del capo dei servizi segreti russi Aleksandr Bortnikov secondo cui dietro la “pista ucraina” ci sarebbe la regia dell’intelligence anglo-americana diventa alle nostre latitudini ennesimo conto alla rovescia per l’escalation che quel “pazzo figlio di puttana” di Vladimir Putin (cit. Joe Biden) osannerebbe, un giorno sì e l’altro pure, contro la Nato.
Non sragioniamo. Il plebiscito dello scorso 17 marzo vale anzitutto professione di fede alla ragione della Russia stessa, declinata in poche priorità esistenziali che guidano da sempre l’azione del Cremlino. Primo: tenere unita e sicura la nazione composta da un territorio bicontinentale e un popolo multietnico. Secondo: se necessario – com’è parso al presidente russo fin dall’inizio del suo mandato nel 1999 – rinvigorire il senso di appartenenza individuando un nemico comune, con cui prima o poi finire in conflitto aperto. Ieri era il terrorismo islamista, oggi è l’Occidente collettivo. Lo stato di necessità come quello della “guerra lunga” che penetra ogni sfera della società russa non fa che nutrire questa liturgia di compattamento interno per uno scontro ineluttabile con l’esterno. Ed è questo che il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha detto al popolo russo per la prima volta poche ore prima dell’attacco al Crocus City Hall, in un’intervista poi scaduta gioco forza nella gerarchia delle notizie di quel venerdì 22 marzo. “È iniziata come un’operazione militare speciale, ma non appena si è formata questa alleanza, quando l’Occidente collettivo ha partecipato al fianco dell’Ucraina, per noi è diventata una guerra, e tutti devono capirlo”. 

Non è all’Occidente, ma ai russi che Putin e il suo cerchio magico parlano in questi giorni di incertezza sul da farsi, a partire dall’individuazione strumentale del “reale” mandante del massacro.

Una carneficina che smaschera falle evidenti nei servizi di sicurezza e militari della Federazione. Attribuirla a quattro cani sciolti (è così che agisce l’Isis Khorasan, senza vertice né struttura centrale) sarebbe insostenibile politicamente da chi solo qualche giorno prima proclamava “andremo avanti insieme, mano nella mano” alla folla riunita nella Piazza Rossa dopo la vittoria elettorale. Peggio ancora sarebbe ammettere che agenti ucraini siano riusciti ad orchestrare il tutto penetrando fino al cuore della nazione. Molto meglio, allora, alimentare lo spettro di un nemico collegiale, più grande, insidioso e manovrato direttamente da Washington. 

Questo non significa che un’escalation intesa come tentativo di sfondamento del fronte non resti un’opzione plausibile. Lo è e lo era già prima dell’attentato, quando secondo alcune fonti anonime del Ministero della Difesa russo riportate dall’agenzia investigativa Vyorstka, il Cremlino si starebbe preparando a una nuova offensiva nella regione di Kharkiv dove negli ultimi giorni si sono intensificati i bombardamenti russi. D’altronde, sul campo le forze di Kiev si stanno trincerando e la tenuta del fronte interno è così fragile che il comandante delle forze di terra, il tenente generale Alexander Pavlyuk, ha accusato i media ucraini di contribuire a distruggere “l’unità e la coesione” attraverso notizie eccessivamente negative sugli sforzi di reclutamento. Addossare la responsabilità del 22 marzo a ucraini, europei e americani potrebbe servire a Mosca come preludio e slancio per una nuova aggressione del territorio ucraino volta a rafforzare ulteriormente la sua leva negoziale in future trattative. Non di pace, ma di pausa tattica. Putin ha ancora il tempo dalla sua e può attendere pungolando militarmente le leadership occidentali, non ancora abbastanza stanche di questo conflitto e di una narrazione scollata dalle volontà delle loro opinioni pubbliche. Del resto, se la guerra sta continuando è anche perché le condizioni di un armistizio sono così chiare a tutti che nessuno ha il coraggio di comunicarle a Zelensky. 

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