Toti arrestato. Oliverio, Errani e gli altri: la gogna dei presidenti prima delle assoluzioni

Esponenti di ogni partito hanno avuto la carriera distrutta da inchieste finite nel nulla

Toti arrestato. Oliverio, Errani e gli altri: la gogna dei presidenti prima delle assoluzioni
di Andrea Bulleri
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Giovedì 9 Maggio 2024, 08:13 - Ultimo aggiornamento: 08:32

ROMA Chi faticosamente è arrivato a fine corsa e poi non si è più ricandidato. Chi ha preferito mollare subito, spesso per via del pressing dei leader nazionali e dei media. Chi più tardi è tornato in politica e chi, invece, ha preso le distanze con un «ho già dato». Sono i governatori disarcionati dalle inchieste. Presidenti di regione di sinistra, centro e destra, eletti dai cittadini e poi costretti (o spinti) al passo indietro per un’indagine che qualche anno più tardi è finita con un’archiviazione o un’assoluzione. O che in qualche caso è ancora in corso ma si avvia sui binari del tramonto, con i pm che hanno chiesto il non luogo a procedere. Un piccolo esercito di “ex”: molti in attesa di un risarcimento anche solo morale, altri che – raggiunti a telefono – non hanno voglia di ripercorrere quei momenti e buttano giù con un «no comment».

IMPENNATA
Una spoon river che ha colpito da Nord a Sud. E che negli ultimi due decenni pare essersi impennata. Ne è convinto Mario Oliverio, già presidente della Calabria dal 2014 al 2020, azzoppato da un’inchiesta per abuso d’ufficio e corruzione e una misura cautelare dell’obbligo di dimora che – attacca – «per tre mesi mi ha impedito di esercitare la funzione per cui ero stato eletto dal 63% dei calabresi». Poi, nel 2021, l’assoluzione. Seguita da un altro avviso di garanzia (per peculato) e da un’altra assoluzione nel 2022. Intanto però il danno era fatto: «Quelle accuse, frutto di un chiaro pregiudizio come ha riconosciuto la Cassazione, unite alla gogna mediatica e alla debolezza della politica, hanno fatto sì che non mi ripresentassi alle elezioni seguenti», ricorda oggi l’ex governatore. «E hanno aperto un’autostrada alla coalizione avversa di centrodestra. Senza quell’errore giudiziario – assicura – la storia politica della Calabria sarebbe stata diversa». Per questo Oliverio non esita a parlare di una «lesione della democrazia»: una «mortificazione del principio costituzionale che dovrebbe essere attenzionata dal parlamento. La corruzione va combattuta, ma non è sparando nel mucchio che si risolve il problema. E quando gli errori si ripetono , non una ma decine di volte – conclude –, è il sintomo di qualcosa che non va».

Raffaele Lombardo, da governatore della Sicilia, finì sul banco degli imputati per concorso esterno in associazione mafiosa. E nel 2012, a pochi mesi dalla scadenza, lasciò per affrontare l’inchiesta. Sfociata in una condanna in primo grado a sei anni e 8 mesi, ribaltata però da due assoluzioni in appello e Cassazione. Oggi, impegnato com’è nel sostegno alla forzista Caterina Chinnici alle Europee, preferisce non riaprire quella pagina. «È il guaio del garantismo – commenta uno dei suoi legali – A differenza delle vittime di malasanità, quelle di malagiustizia hanno sempre paura di finire di nuovo nel mirino. E spesso preferiscono non parlarne».

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È il caso di Vasco Errani.

Che da presidente dell’Emilia, nel 2014, si dimise dopo una condanna in appello a un anno di reclusione per falso ideologico. L’accusa era quella di aver inviato alla procura di Bologna, in risposta a un articolo di stampa, una relazione fuorviante sui contributi “facili” concessi dalla regione alla cooperativa «Terremerse», presieduta in passato dal fratello Giovanni. Accusa ribaltata in Cassazione, dove Errani fu assolto. Al pari di tutti gli altri indagati.

Doppia archiviazione per il suo successore Stefano Bonaccini, che però è rimasto in sella alla guida dell’Emilia Romagna. Il non luogo a procedere è stato decretato sia per il caso “spese pazze” del 2015, sia due anni fa, per l’accusa di abuso d’ufficio e concussione esplosa dopo l’esposto del sindaco di Jolanda di Savoia Paolo Pezzolato (della Lega). Assolto, invece, da un’altra accusa per abuso d’ufficio, nel 2013.

REGOLARE I CONTI
Per altri, invece, le vicende giudiziarie sono ancora in corso. Da governatore della Toscana, Enrico Rossi fu lambito prima da un procedimento per un maxi buco nei conti dell’Asl di Massa Carrara (archiviato), poi per la gara sul trasporto pubblico locale: l’accusa, ancora in piedi, è di turbativa d’asta. Ma lo scorso gennaio i pm hanno chiesto l’archiviazione.

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Stessa sorte, questa, toccata un mese fa a Catiuscia Marini, già governatrice dell’Umbria coinvolta in una “concorsopoli” sanitaria. È l’inchiesta che nel 2019 portò alle dimissioni l’esponente dem, nel frattempo assolta dalla Corte dei Conti per l’ipotesi di danno erariale. «Parlerò quando di questa vicenda sarà stato scritto l’epilogo», dice. «Ma mi limito a osservare questo: sono stata costretta alle dimissioni per una vicenda che nulla ha a che fare con l’amministrazione regionale. Questo è un Paese che si dice garantista, ma in cui il giustizialismo viene usato per regolare i conti con gli avversari, anche interni. È giusto che sugli amministratori sia puntato un faro, ma non può bastare un avviso di garanzia e un processo politico-mediatico per sovvertire il funzionamento delle istituzioni». Anche per questo, spiega Marini (che oggi lavora nel settore delle cooperative), comunque andrà non tornerà in politica. «Io e i miei familiari abbiamo dovuto pagare un prezzo altissimo. Dispiace perché così si allontanano le competenze dalla cosa pubblica. Ma per quanto mi riguarda, ho già dato».

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