Quel baciamano di Malagò a Virginia, simbolo di due mondi agli antipodi

Quel baciamano di Malagò a Virginia, simbolo di due mondi agli antipodi
di Mario Ajello
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Venerdì 23 Settembre 2016, 08:10
«Fatemi baciare la vostra manina. Sapete, io sono così felice di questo ritorno alle vecchie usanze come il baciamano». E' una pagina di «Anna Karenina»? Sì, ma è anche la scena che si è svolta ieri in un luogo che avrebbe dovuto far pensare a un nuovo capitolo della guerra Raggi-Malagò - la Sala delle Armi al Foro Italico tra via delle Olimpiadi e via dei Gladiatori - e che invece si trasforma nel set delle buone maniere che non significano meramente bon ton ma qualcosa di più. Alla maleducazione ostentata e rivendicata come gesto politico l'altro giorno dal sindaco di Roma - che ha fatto aspettare invano il presidente del Coni e sui social si è pure ironizzato: «La Raggi è la prima donna che dà buca a Malagò» - ieri lui ha replicato mostrandosi il signore che è ed elevando il baciamano a sua volta a gesto politico.

IL DERBY
Un derby, ecco, tra due stili. Tra due opposte visioni del mondo e di se stessi. Malagò, dopo qualche minuto dall'entrata della Raggi nel salone, le si avvicina e applica alla lettera, davanti a tutti e lì accanto c'è l'onnipresente avvocato Piercamillo Sammarco in veste di tutor e di accompagnatore del sindaco, il manuale del perfetto baciamano. Prende la mano destra della dama Virginia, la solleva delicatamente, accenna a un elegante mezzo inchino appena abbozzato e la sfiora sul dorso e non sulle nocche con un simulacro di bacio. Ma si avverte freddezza in questo gesto, contiene le tracce di una frattura non superata. La Raggi sfoggia un sorriso forzato e non riesce a sciogliersi in questa scena. E' visibilmente sbalordita per l'iniziativa dell'avversario anche perché non conosce il soggetto che ha di fronte e neppure sembra pratica di quella civiltà del rispetto e della socializzazione di cui Malagò, più abituato ad avere amici che nemici, è soave esponente.

Di fatto, non basta certo questo baciamano a risolvere la guerra tra i due mondi. E non è riassumibile nel galantomismo in questa scena - anche se Malagò a chi gli domanda se la Raggi gli ha chiesto scusa risponde: «Una donna non deve mai chiedere scusa» - che risulta piuttosto una indicazione di metodo generale sintetizzabile così: con la cultura del vaffa non si va da nessuna parte e soprattutto non si fanno funzionare le cose nell'interesse dei cittadini. «E' stato un gesto spontaneo. E' mia abitudine - così commenta poi il presidente del Coni - fare il baciamano a donne con cui non ho confidenza». Ed è stato questo baciamano anche un modo, da parte di Malagò, per ribadire quella compostezza che gli appartiene e che è stata messa a dura prova dallo sgarbo della sindaca l'altro giorno.

Le due facce di Roma, che la Raggi e Malagò rappresentano, nonostante il baciamano restano quelle che sono sempre state nella loro incomunicabilità. Lei è il pauperismo del minestrone nella trattoria zona stazione Termini. Lui è il glamour da villa sulla spiaggia di Sabaudia e l'intreccio di relazioni importanti da Circolo Aniene. Lei partecipa alle biciclettate grilline in periferia e frequenta i gruppi d'acquisto equo-solidale e agro-pastorali. Lui vive, senza la cafoneria dello sfarzo, nel mondo spettacolare dei campioni dello sport (da Federica Pellegrini e Francesco Totti), in quello delle istituzioni e nei giri della borghesia che conta, a cominciare dalla vecchia amicizia che aveva con Gianni Agnelli. Il quale affettuosamente lo chiamava il Profirio Rubirosa dei Parioli.

E che cosa c'entra in tutto questo il Dibba? Ebbene, l'Invettivista Bullo ieri s'è infilato al volo nella diatriba Raggi-Malagò, pur di non perdersi un nuovo giro da acrobata del nulla nel circo mediatico. Accusa il presidente del Coni di essere un «coatto» che «minaccia la sindaca» e aggiunge in slang: «Arimettete la giacchetta!». Le offese a Malagò non sono smentite solo dal baciamano di ieri ma da ogni evidenza e ha buon gioco il presidente del Coni ha spiegare: «Io sarei un coatto che minaccia? Non penso di essere questo. Penso che la mia vita e il mio stile dicano qualcosa di diverso ma anche su questo rispettiamo le opinioni di tutti».

IL FANFARONE
L'opinione di Arthur Schopenhauer sul grillino Dibba, se si fosse interessato di personaggi che anche definire minori sarebbe un eccesso, sembrerebbe negativa e stroncatoria alla luce celebre manualetto «L'arte di insultare». Il grande filosofo avrebbe inserito il piccolo agit-prop nella categoria dell'invettivista fanfarone, quello che «quando si accorge che l'avversario è superiore, diventa offensivo, oltraggioso, grossolano. E passa dialetticamente dall'oggetto della contesa (dove ha partita persa) al contendente, attaccando in qualsiasi modo la sua persona».

Nella guerra di civiltà si ha a che fare con soggetti così. Ma se il baciamano può essere la giusta replica alla Raggi, l'unica arma contro il Dibba è il Dibba.
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