Rugby, il veterano Ghiraldini e il Club dei 100: «Italia pronta a stupirvi, con O'Shea cresce tutto il movimento»

Leonardo Ghiraldini (Foto di Pino Fama)
di Paolo Ricci Bitti
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Sabato 11 Novembre 2017, 04:12 - Ultimo aggiornamento: 05:58
ROMA - Il vento che accarezza il Pont Neuf sulla Garonna a Tolosa e il vento che soffia sulla nazionale del nuovo corso di Conor O’Shea, pronta ad affrontare Fiji, Argentina e Sud Africa nei test match di novembre. Il veterano azzurro ed economista Leonardo Ghiraldini e la moglie Federica hanno imbacuccato ben bene i piccoli Giacomo, 3 anni, e Camilla, 4 mesi, e si godono una passeggiata domenicale sul lungofiume della capitale dell’Occitania.

“La quiete, magnifica, tra la vittoria soffertissima con il Bordeaux-Begles di Brunel e le tre partite con l’Italia – dice al telefono il 32enne tallonatore padovano, alla vigilia della sua dodicesima stagione in nazionale e alla seconda allo Stade Toulousain – Nel gruppo c’è una fortissima voglia di dimostrare che il lavoro di Conor e del suo staff darà risultati”.

Sarebbe ora, perché l’Italia non vince da 9 partite, dall’impresa di un anno fa a Firenze contro il Sud Africa.
“Figuriamoci se io, a 32 anni, non sono il primo che vuole le vittorie, ma intanto vanno incrementati i progressi di un progetto che, finalmente, va ben oltre questa stagione. Al tempo stesso capisco che gli appassionati, soprattutto quelli, tantissimi, arrivati negli ultimi anni vogliano festeggiare qualche successo: abbiamo un pubblico magnifico che non finiremo mai di ringraziare e che magari ha capito che giochiamo sempre con avversari più forti di noi”.

Tolosa non scherza in fatto di pubblico.
“Si resta senza fiato di fronte alla passione per il rugby di questa città, di questa parte della Francia. Anche nelle stagioni vissute a Leicester ho conosciuto l’amore profondo degli inglesi per il rugby, la loro competenza, la fiducia accordata anche a chi non ha alle spalle una delle grandi nazioni di questo sport. Leicester è anche la città inglese con il maggior numero di abbonati e l’atmosfera a Welford Road è a dir poco travolgente, ma qui a Tolosa la storia e la vita della città si intrecciano ancora di più, e in ogni momento, con quelle dello Stade che per di più ha iniziato bene la stagione come non capitava da almeno cinque anni”.

Ci racconta che cosa hanno scritto sul suo armadietto negli spogliatoi allo stadio-tempio Ernest-Wallon, quello con il numero 2.
“Ah, la storia del “Club dei 100”. Che epopea! Il nuovo presidente Didier Lacroix ha fatto scrivere con lettere dorate i nomi dei giocatori che hanno giocato almeno 100 partite per il club dal 1890 ad oggi. Sono 128, di cui 121 viventi e hanno diritto anche a un posto perenne in tribuna d’onore: nel mio armadietto sono ricordati Daniel Santamans, Yannick Bru e William Servat. Così, quando ti infili quella maglia, sai chi ti ha preceduto. Una botta di orgoglio impressionante e l’altrettanto pesante responsabilità di non tradire le attese. Anche in Italia dovremmo cominciare ad avere cura di queste tradizioni, di queste appartenenze fonti di enorme motivazione”.

Se è per quello in Italia suo figlio Giacomo non potrebbe nemmeno sfogliare l’album delle figurine Panini dedicato al Top 14.
“Già, simpatico ritrovarsi sulle “figu”. Da piccolo, a Padova, facevo la raccolta di quelle dei calciatori e mai avrei immaginato di ritrovarmi dentro un album”.

Il ct O’Shea per i ruoli dei primi cinque della mischia, insomma, i “trattori” del pack, ha convocato 8 giocatori: in 7 capitalizzano 80 caps (presenze), poi c’è lei che da solo ne ha 86.
“Vuole dire che sono vecchio?”.

Macché, è il mix veterani-giovani pianificato dal ct.
“Ecco, ha detto bene “pianificato”, perché nei primi raduni ho avvertito concretamente gli effetti delle linee guida del piano di O’Shea che ha messo a sistema tutte le componenti del movimento: vivai, club, accademie e franchigie. Altre volte il ricambio generazionale è avvenuto per necessità contingenti, adesso c’è un percorso preciso. E devo dire che la maturità di questi ventenni, usciti da quel percorso, è incoraggiante”.

Le franchigie Benetton Treviso e Zebre hanno iniziato con inattesi successi la stagione delle coppe europee.
“E’ un ottimo segnale, anch’esso segno che lavorare “in rete” dà frutti. E il gioco della nazionale ne trarrà sicuramente benefici. Se ricordate, nel 2013, battemmo Francia e Irlanda e spaventammo gli inglesi a Twickenham: beh, in quella stagione il Treviso andava parecchio bene”.

Lei e l’altro veterano Sergio Parisse godete del massimo rispetto di questa nidiata, il che comporta un bel peso da portare sulle spalle.
“Già, com’è giusto che sia. Dobbiamo essere d’esempio in ogni istante, dentro e fuori dal campo. In più, con questi ragazzi, dobbiamo fare da tramite con la generazione che ci ha portato nel Sei Nazioni che abbiamo, almeno in parte, frequentato. La voglia di quegli azzurri di compiere un’impresa ritenuta impossibile dove restare viva e servire per puntare a nuovi traguardi, ovvero “abitare” nel Sei Nazioni con un ruolo importante”.

Castrogiovanni, fisicamente un prolungamento del lato destro del suo corpo per l’impressionante numero di mischie che avete ingaggiato, ha detto di avere perso la voglia di azzurro quando ha visto negli spogliatoi qualche matricola non abbattersi più di tanto per l’ennesima batosta.
“Non so che cosa abbia detto “Castro”, ma credo che vi siano modi diversi di affrontare le situazioni legati anche all’età. Ripeto, sono davvero molto impressionato dal rigore e della determinazione dei giovani che sto cominciando a conoscere meglio in questo gruppo. Oltre alla passione, simile alla nostra, hanno una maniera assai professionale di affrontare ogni momento della vita in azzurro”.

Si può dire, tuttavia, che voi ultratrentenni avevate, per forza di cose, uno spessore maggiore per quanto riguarda la formazione al di là del rugby?
“No, non la metterei giù così...”

Lei ha una laurea in Economia e presto di iscriverà a un master, forse proprio a Tolosa dove l’ambiente aiuta a crescere anche dal punto di vista culturale e formativo.
“Sì, grazie, e magari mi servirà, anche se è prematuro dirlo, per restare nel rugby in un ruolo dirigenziale. Ma questo mio tragitto è frutto anche di una situazione generazionale che non è assolutamente detto debba essere migliore dello scenario attuale”.

Prego.
“Quando sono diventato professionista il percorso era più naif, c’era probabilmente più bisogno di sapersela cavare da soli, di capire quali erano le scelte più opportune. Adesso è in pratica tutto stabilito e organizzato per accompagnare un giovane di talento all’alto livello. Le accademie federali collegate ai club e alle franchigie sono determinanti per maturare sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista culturale. I giovani imparano ogni aspetto del professionismo (dagli skills all’alimentazione, dalla tenuta fisica alle scelte tattiche) e possono davvero assemblare le competenze per scegliere, grazie all’impegno e alla determinazione, di puntare alla nazionale senza dimenticare l’importanza dello studio. Insomma, a una maturità effettiva, quella scolastica, intendo, ci si arriva comunque e non è poco per chi intanto gioca anche nelle under azzurre con qualche prospettiva di “sfondare”. E’ una carta importante per la vita, che poi si diventi pro’ oppure, e soprattutto, no. Certo, di lì in poi, per chi viene scelto da una franchigia diventa durissimo conciliare il rugby con un corso di laurea o di qualificazione professionale, ma intanto ci sono le basi per provarci semmai in un secondo momento che, tanto, visto anche il crudo logorìo fisico imposto dal rugby attuale, arriva ben prima dei quarant’anni”.

L’ex azzurro Andrea Rinaldo, luminare veneziano a livello mondiale di Ingegneria idraulica, ha scritto il denso saggio “Del rugby – Verso una ecologia della palla ovale”, un libro che Gianni Brera avrebbe definito “alimentare” per sottolineare l’assoluta necessità di leggerlo: in esso si racconta con rammarico della scarsa o punto adesione dei giocatori del Petrarca Padova al progetto che lo stesso Rinaldo – all’epoca legale rappresentante del club – aveva varato per consentire loro di giocare ad alto livello e al tempo stesso di studiare o di maturare una qualificazione professionale. Una doppia carriera non facile, ma non impossibile, che lei del resto impersona tanto da essere esplicitamente citato nel saggio.
“Sì, ho letto e mi ha fatto piacere. Però quella scarsa adesione all’illuminata idea di Rinaldo forse è frutto di questa fase intermedia del rugby italiano che magari sta durando un po’ troppo. Intendo dire che il relativamente recente passaggio dal dilettantismo spesso marron al professionismo comporta, sta comportando, fasi di adattamento non solo in Italia, ma anche in paesi di lungo corso ovale. Con possibili storture, equivoci, illusioni. La profondità culturale personale, della famiglia e degli allenatori-educatori possono allora diventare determinanti per guidare le scelte di un giovane poco più che adolescente che vuole provare a diventare rugbysta professionista. Professionista comunque con una carriera di non troppi anni e soprattutto realizzabile davvero da ben pochi soggetti, non solo in Italia. Adesso però, rispetto a pochissimi anni fa, anche da noi un ventenne che approda nel giro azzurro è frutto quasi sempre di quel percorso prestabilito, strutturato, adeguato che ho citato prima: se si ha talento e voglia di sudare ci si trova a viaggiare su binari sicuri che possono favorire questa doppia carriera. Intendiamoci, parliamo di un ristrettissimo numero di giocatori, un numero così angusto da rafforzare l’indispensabilità di un piano B per la propria vita”.

Serve un piano B anche a un professionista come lei che gioca in un club fra i più professionali del mondo?
“Anche di più, perché sarebbe un delitto non sfruttare le opportunità che questa situazione mi offre. Dal punto di vista tecnico è strabiliante, rispetto ai miei anni d’esordio, la mole di strumenti che lo Stade ha messo a punto per distillare fino all’ultima goccia del talento del giocatore, immerso in un ambiente sì molto competitivo, ma anche molto stimolante . A poche ore dal match ho già sullo smartphone una disamina monumentale della mia prestazione e di quella della squadra con le prime indicazioni per non ripetere errori e incrementare le fasi positive. Elementi che sono poi base di confronto con l’articolatissimo staff tecnico. Ah, mi perdoni se apro una parentresi, fra gli allenatori vi sono ex giocatori che sono scesi in campo con Totò Perugini (raro esempio di pilone che traduce dal latino e dal greco, ndr), un azzurro che ha lasciato un fenomenale ricordo qui a Tolosa. In tanti, da assi come Medard, Fritz o Servat, ma anche anche fra i tifosi, lo citano nelle conversazioni. Ed è indubbio che il rispetto per il rugby italiano è sincero: ogni match contro le franchigie italiane viene preparato senza alcuno sconto di tensione”

Articolatissimo staff che finalmente è stato assemblato anche per la nazionale azzurra.
“Sì, O’Shea è veramente efficace nel sistemare ogni tessera della squadra degli allenatori al servizio della squadra dei giocatori. Dal fitness alla tecnica, dalle strategie in campo alle “relazioni pubbliche” tutto si armonizza evidenziando, obiettivi, compiti, responsabilità e meriti. Non sarebbe male vedere questo processo decisionale e organizzativo applicato ad almeno certe parti della nostra società civile italiana”.

Nessuna nostalgia della Stivale?
“No, no, anche se quella sottotraccia c’è sempre, ma ogni fase della vita ha i suoi scenari. Certo ora si può guardare con soddisfazione, anche dall’estero, alla stabilità e alla coerenza del progetto di O’Shea che daranno certamente risultati”.

Lo dice anche Pierre Villepreux, fra i principali artefici della scuola di Tolosa, con l’intento di spronare la sua amata Italia a dare finalmente continuità a un progetto. Non è un endorsement obbligato alle idee di O’Shea, che non giudica pur riconoscendo in esse notevoli potenzialità. Ma valuta positivamente che il sistema Italia del rugby adesso marci con sensibile unità verso la stessa meta. Terribile – ha detto - sarebbe cambiare di nuovo rotta fra pochi anni inseguendo la chimera dei risultati.
“Sottoscrivo. E credo che la trasparente serenità del gruppo azzurro derivi dalla consapevolezza di questa stabilità e dal raccordo fra i vari settori del movimento. Chi si allena nelle franchigie ritrova lo stesso linguaggio nella nazionale, a cominciare dal tanto citato ed effettivamente indispensabile fitness che ha fatto davvero notevoli progressi. E poi dovrà essere la volta dei club di Eccellenza che devono essere aiutati a recuperare spessore”.

Fiji, Argentina e Sud Africa: che cosa ci aspetta?
“Siamo su All Rugby, parliamo fra appassionati e non c’è bisogno di farla tanto lunga. Sono tutte squadre che ci precedono nel ranking, ma possiamo dire la nostra con Fiji e Argentina. Poi l’anno scorso il Sud Africa si bruciò a Firenze e non vorrà certo ripetersi, ma vedrete che nella “mia” Padova gli Springboks non se la passeranno bene”.
 
 




 
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