Rugby, la maglia azzurra della nazionale da Crédit Agricole Cariparma a Cattolica Assicurazioni

Rugby, la maglia azzurra della nazionale da Crédit Agricole Cariparma a Cattolica Assicurazioni
di Paolo Ricci Bitti
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Martedì 20 Marzo 2018, 22:36 - Ultimo aggiornamento: 21 Marzo, 16:23
Futuro assicurato per la nazionale di rugby che da giugno dovrebbe portare sulle maglie il logo di Cattolica Assicurazioni, fra i giganti del settore in Italia. Dopo undici anni di reciproche soddisfazioni si dividono infatti le strade di Federugby e Crédit Agricole Cariparma che, oltre alle maglie della rappresentativa maggiore, degli under 20 e della femminile, ha griffato anche i test match di novembre. Il gruppo bancario è divenuto lo sponsor di maglia più longevo nella storia della Fir con un legame che ha pochi eguali anche nel resto dello sport italiano.

Ora però la politica delle sponsorizzazioni dell’istituto internazionale, guidato in Italia da Giampiero Maioli, cambia globalmente e da qui i saluti in amicizia ai rugbysti dopo questo lungo cammino insieme segnato da vittorie di rango con Sud Africa, Francia, Irlanda e Scozia.

Adesso le trattative della Fir del presidente Alfredo Gavazzi sono in fase molto avanzata con la compagnia di Verona che potrebbe garantire agli azzurri un sostegno ancora più interessante rispetto alla somma (da 1,5 a 2 milioni di euro l’anno) che serviva finora per apparire con gli azzurri nei templi del rugby mondiale. Una visibilità di indubbio prestigio.

Cattolica Assicurazioni di Verona è quotata in Borsa dal 2000 ed è protagonista di una crescita impetuosa che ha attirato persino l’attenzione di Warren Buffett, re degli investitori nel mondo, che ne è divenuto di recente il primo azionista con il 9% attraverso Berkshire Hathaway. Il rugby italiano, insomma, farà meta anche grazie alla grande finanza internazionale. Scenari noti ai due azzurri Leonardo Ghiraldini e George Fabio Biagi, colossi della mischia e brillanti laureati in Economia a Padova e alla Bocconi. E anche il ct dell’Italia, l’irlandese Conor O’Shea se la cava in questi ambienti grazie a un master negli Stati Uniti.

L’ultracentenario gruppo veneto (è nato nel 1896) è già sponsor tecnico della Fir, conta 1.600 sportelli in tutt’Italia e punta, secondo il piano industriale 2018-2020, a portare l’utile operativo a 375-400 milioni di euro (+60%) grazie a una raccolta di premi destinata a salire, nelle stime, a 7,6-8 miliardi (+64%).

L’amministratore delegato Alberto Minali (ex dg di Generali) non ha inoltre mai nascosto la propria passione per lo sport: quando era ragazzo a Verona non era facile praticare il rugby e si dedicò a calcio e arti marziali, ma intanto non si perdeva e non si perde un test match della palla ovale, disciplina di cui apprezza lealtà, gioco di squadra e il sostegno che va sempre dato ai compagni senza lasciarsi andare a personalismi.

Il valore del rugby e del rugby azzurro, insomma, continua a “pagare” al di là dei risultati in campo che in Italia condannerebbero ogni altro sport all’oblìo: anche se la nazionale non smette di perdere (17 sconfitte di seguito nel Sei Nazioni, con 12 vittorie e un pareggio in 95 partite nel Torneo dal 2000) il passaggio del testimone della sponsorizzazione di maglia avverrà fra due grandi gruppi, con la costante convinzione che convenga legare la propria immagine a uno sport che ha fatto breccia nelle famiglie e che è sempre più praticato da bambine e bambini (oltre 100mila tesserati). E in grado con la nazionale, unico possibile traino del movimento, di riempire ogni volta di passione, festa e allegria i grandi stadi nonostante si sappia che ben difficilmente il pronostico mai favorevole all’Italia sarà ribaltato. Con una Federazione, infine, che, in una congiuntura comunque non facile, "costruisce" con le proprie iniziative il 93% dei ricavi che ballano attorno ai 45 milioni annui. Felici paradossi del rugby italico che si perpetuano.









 
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