Rugby, la veglia funebre per l'All Black Jonah Lomu all'Eden Park di Auckland: la Nuova Zelanda si è fermata

Rugby, la veglia funebre per l'All Black Jonah Lomu all'Eden Park di Auckland: la Nuova Zelanda si è fermata
di Paolo Ricci Bitti
7 Minuti di Lettura
Lunedì 30 Novembre 2015, 03:32 - Ultimo aggiornamento: 1 Dicembre, 12:36

​L’una di notte:lunedì 30 novembre è appena iniziato. Dall’altra parte del mondo, in Paradiso, sono le 13 e sta per cominciare l’ultimo saluto a Jonah Lomu. Con quello che ci ha dato il ragazzone morto a 40 anni il 18 novembre per le conseguenze di una patologia genetica ai reni, vale la pena restare svegli: il live streaming del New Zealand Herald funziona discretamente, la veglia funebre si può seguire.
In diretta, insomma, dal Paradiso. In senso letterale, il giardino dell’Eden, lo stadio Eden Park di Auckland, Nuova Zelanda dove tutto cominciò 21 anni fa: la Francia è in tournée e ha vinto a sorpresa (8-22) il primo test match a Wellington.




La rivincita e il destino della serie dei test match del 1994 si giocano all’Eden Park e di nuovo quel gigante debuttante di 19 anni ottiene la fiducia di Laurie Mains, il ct, che lo schiera all’ala anche se molti consigliano la maglia da flanker. Finisce di nuovo male per gli All Blacks: perdono 20-23 e Jonah Lomu è fra i bocciati con i voti più bassi, spaesato nel ruolo, impalbabile in difesa, inutile in attacco. Un disastro nel disastro.

Da allora la Nuova Zelanda non ha più perso in match all’Eden Park e da allora iniziò, pur con quel prodromo, la leggenda di Jonah Lomu che adesso riposa nella bara in tribuna nello stadio davanti alla moglie Nadene e ai due figli Brayley e Dhyrelle, 6 e 5 anni.

Il cielo è livido nella primavera australe e non c’è tutta quella gente che ci si poteva attendere (solo la tribuna principale è piena) anche se altre cronache raccontano di una nazione ferma davanti alla tv mente si alternano i canti maori e l’inno neozelandese.

Il nero è il colore dei funerali, ma qui – lo sapete – è un altro il motivo per cui quasi tutti indossano la maglia o la camicia nera con la felce e il numero 11. Si vedono generazioni e generazioni di All Blacks sulle gradinate. Finora prevalgono i saluti in lingua maori e tongana e capisco solo “Jonah”.

In questi giorni ho aggiunto una tonnellata di ritagli al faldone di Lomu e ho soprattutto recuperato quelli di quel 18 giugno 1995 al Newlands di Città del Capo quando con due colleghi, Valerio Vecchiarelli, del Corsera, e Fabrizio Zupo, del Mattino di Padova, reduci dal monsone di Durban di 24 ore prima, ci ritrovammo nella zona mista a essere gli unici cronisti italiani a parlare con Jonah Lomu che aveva appena sbriciolato come un grissino l’Inghilterra. L’avevamo visto in tv distruggere l’Irlanda e la Scozia e di lui, prima di quei mondiali, si era sentito parlare a proposito del rugby a 7, in cui divorava terreno e avversari.

Ma è stato in quella semifinale che esplose il fenomeno Lomu e non si può dire che ce ne rendemmo conto solo in seguito. No, tutti, in tutto il mondo, capirono subito che quella partita e le quattro mete di Lomu segnavano un prima e un dopo e, sopra a tutto, offrivano la possibilità di salvare il rugby a 15 dal colpo di stato dei tycoon che avevano già rastrellato oltre 200 internazionali di tutto il mondo per allestire un circuito professionistico. Jonah Lomu, il salvatore.


Passa sullo schermo il saluto dal Parigi del primo ministro John Key e la rassegna dei tg di ogni parte del globo che hanno dato la notizia della morte di Lomu subito dopo gli aggiornamenti della capitale francese.

Ora sta parlando Bernard Lapasset, il presidente di World Rugby (la Fifa ovale) che ricorda anche il peso decisivo che ha avuto Lomu nella campagna per riportare il rugby (a 7) alle Olimpiadi di Rio.

Vent’anni fa Lomu, dopo il match era assediato da legioni di cronisti neozelandesi, sudafricani, australiani, inglesi: i più a terra non erano, come si potrebbe pensare, gli inglesi, ma i sudafricani. Gli inglesi avevano sì perso la faccia e molto altro, ma i giornalisti springboks avevano realizzato che in finale non avrebbero mai e poi mai potuto battere gli All Blacks con quel giocatore di un altro pianeta. Non andò così, ma è un’altra storia che riguarda un altro fuori categoria assoluto, Nelson Mandela.
Beh, a ogni modo, Jonah Lomu quel 18 giugno del 1995 trovò il tempo anche per scambiare qualche frase con quei tre pellegrini italiani testimoni di un rugby che, venti anni fa, contava ben poco in quel contesto: “Ho giocato come meglio ho potuto, gran parte del merito va ai compagni di squadra, tutti bravissimi, io faccio solo la mia parte. Italiani? Non vedo l’ora di visitare il vostro paese, ci vediamo in novembre” concluse con quel tono di voce lieve e gentile che contrastava in maniera così assordante con quel fisico che emanava potenza a ogni passo.


Al microfono c’è adesso il preside del college di Wesley, Chris Grinter, al quale la madre di Jonah (molto composta in tribuna con un abito tongano) si rivolse per tenere il figlio quindicenne lontano dai guai alla Once were warriors dei sobborghi degradati di Auckland. Racconta di quando il ragazzo che non aveva mai praticato sport e che era anche indolente iniziò a battere tutti i record in tutti gli sport. Poco prima gli alunni delle elementari Mengere's Favona gli hanno dedicato un balletto più hip hop che maori.

Per la famiglia prende la parola John Hart, ct degli All Blacks dal 1995 al 1999, che racconta della prima "Global Superstar" del rugby e della sua battaglia più importante, quella contro la malattia genetica ai reni nascosta all’inizio persino al ct degli All Blacks e della volontà di aspettare il trapianto di rene senza superare alcuno nella lista d’attesa. Dell'esempio che ha dato a milioni di persone che soffrono di queste patologie. E della sua generosità con i più deboli, del suo amore per i bambini.

In tribuna inquadrano gli australiani Horan e Gregan, sul podio sale Eric Rush, prima grande star del rugby a 7, che strappa applausi e risate ricordando il carattere allegro di Lomu, un ragazzo delle isole del Pacifico che non aveva paura di nessuno se non della mamma Hepi: ma poi l’ex ala degli All Blacks chiude con gli occhi lucidi. Sul palco davanti al grande schermo in mezzo al campo spazio anche a complessi musicali folk e rock e perdonate se non li riconosco.

Di tutte le paginate sulla morte di Lomu che ho impilato, al primo posto ho messo un trafiletto di poche righe scritto da un lettore del Times e pubblicato il 23 novembre nella colonna Lives remembered della pagina degli Obituaries. E’ la colonna riservata a chi vuole ricordare episodi della vita dei personaggi raccontata qualche giorno prima nei grandi ritratti che sono i necrologi dei quotidiani inglesi.
Così il lettore John Webster ricorda di quel volo interminabile da New York a Johannesburg in cui nel 1999 si ritrovò a dividere la First Class solo con Lomu e l’allora moglie Fiona. “Ci scambiammo qualche convenevole e il campione si rivelò molto alla mano. Quasi subito le hostess della Saa gli chiesero se sarebbe stato disponibile a firmare un paio di autografi perché qualche passeggero lo aveva riconosciuto all’imbarco. Lomu fu così gentile da chiedermi, prima di rispondere alle hostess, se la questione mi avrebbe causato disturbo. Naturalmente lo ringraziai per la cortesia e gli dissi che per me non c’era alcun problema. Beh, dopo i primi due passeggeri, ne arrivarano tre, poi quattro, poi altri due. Di fatto solo i piloti non si presentarono in First Class, ma solo perché attesero la fine del volo. Lomu firmò centinaia di autografi e si fece fare centinaia di foto e per ogni passeggero, ripeto, ogni passeggero, ebbe qualche parola. All’atterraggio stava ancora firmando pagine di quaderni. E figuriamoci che quell’immane pazienza dimostrata dal gigante per tutte quelle ore di viaggio arrivava dopo un volo da San Francisco a New York, mi raccontò infine la moglie, per nulla stupita, ovviamente, della disponibilità del marito”.


Sul palco altre cantanti, poi arriva il reverendo Sid Going, il mediano di mischia di Dio, 29 caps compreso quello nel match dei match del 1973 contro i Barbarians: invita a pregare per Jonah. Pregano tutti, molti – a questo punto – piangono.
La bara viene portata a braccia verso il prato mentre parte la prima haka, quella degli ex alunni del Wesley college, molti gli all back. Sulla bara un alito di vento muove la bandiera nera con la felce argentata. Applausi, molto discreti. La bara attraversa il campo.

Parte un’altra haka, possente: è Ka Mate, Wayne "Buck" Shelford la guida. E c’è anche John Kirwan. E Michael Jones. E Tana Umaga (Video).

Sono ormai le 3: lo streaming non si vede bene, sfarfalla o forse sono gli occhi lucidi anche a 12 ore e 18mila km di distanza. Dal campo alla tribuna un’haka rimanda a un’altra e a un’altra ancora: voci di guerrieri e voci di bambini. No, non è lo streaming a bagnare gli occhi. Quaranta colombe bianche vengono liberate: i figli di Jonah spalancano gli occhi per seguirle nel cielo grigio.

La bara viene caricata sull’auto nera da Frank Bunce, Michael Jones, Joeli Vidiri, Dylan Mika, Eroni Clarke, Jerome Kaino, Manu Vatuve e il medico John Mayhew. Un’ultima haka degli alunni del Wesley college l’accompagna.

Sul maxischermo: Jonah Lomu rest in peace.

La sigla finale è muta, è un disegno animato: su uno sfondo chiaro una piccola foglia che compone la felce scura si stacca e scivola lentamente in basso lasciando un vuoto. Nessuno lo potrà mai colmare.

twitter: @paoloriccibitti

blog: Rugby Side

LA STORIA DI LOMU IN TRE VIDEO










aa

© RIPRODUZIONE RISERVATA