Il regista Gabriele Mainetti: «Troisi ripartiva da tre, io ricomincio e basta»

Il regista Gabriele Mainetti: «Troisi ripartiva da tre, io ricomincio e basta»
di Malcom Pagani
11 Minuti di Lettura
Domenica 2 Luglio 2017, 20:30 - Ultimo aggiornamento: 9 Luglio, 13:20

Piccole cose di valore non quantificabile: «Avrei potuto scegliere di fare un altro mestiere, continuare a studiare materie che non mi interessavano, accumulare trenta e lode imparando a memoria testi che mi incupivano. Avrei potuto, ma non ne avevo voglia. Così un giorno andai da mio padre e invece di proporgli di lavorare con lui, decisi di essere sincero: Forse dalla vita pretendo troppo, però più mi sforzo e meno capisco perché dovrei continuare a frequentare la facoltà di Scienze politiche. Mi annoio, mi sento inutile, mi rompo i coglioni. Lui era sorpreso: E che cosa vorresti fare?. Il regista. Scherzi?». Non scherzava. Con un solo film, Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti ha vinto molti più premi degli anni che ha.

In un bar di Piazza Madonna dei Monti, consuma un pasto frugale, attende la seconda prova che confermi la bontà dell'esordio e sostiene di non avere santi a cui votarsi per tenere a bada l'ansia: «Il miglior consiglio sul tema me l'ha dato Anurag Kashyap. Un indiano che fa il mio stesso mestiere, ha un fratello che qualche anno fa firmò un'opera prima dall'esito clamoroso e poi sbagliò il secondo colpo e cadde in depressione senza riuscire più a scrivere una sola riga. Devi metterti tutto alle spalle- mi ha detto- e pensare che stai per girare il tuo primo film come se niente fosse accaduto. Troisi invece dopo il successo eccezionale del suo primo film si confortava di fronte all'ansia del secondo ripetendo ai giornalisti che avrebbe fatto direttamente il terzo. Boh! Io intanto ricomincio».

È un buon consiglio?
«Se mi concentro sulle aspettative, a stare tranquillo non riesco. Così provo a farmi guidare solo dalla passione per il cinema. È un'arma a doppio taglio. Può divorarti, la passione».

A lei è accaduto?
«All'epoca di Jeeg purtroppo mi è successo. Tornavo a casa devastato dalle preoccupazioni e non riuscivo a scrollarmi di dosso le tensioni. Pensavo all'attore che stava male, alla location che cambiava all'improvviso, ai tipici casini con i quali ogni film ti costringe quotidianamente a confrontarti. Poi è arrivato il momento del montaggio e della colonna sonora. Mangiavo in fretta e mi rimettevo di nuovo nevroticamente davanti a un monitor chiedendo alla mia compagna se la musica che avevo composto per una certa sequenza la convinceva o meno».

E la sua compagna?
«Si sentiva sola. E aveva ragione. A un passo dal farne pesantemente le spese a livello mentale anche io, mi sono chiesto se non fosse il caso di darmi un limite. E me lo sto dando. Adesso sono leggermente più equilibrato. Mi sveglio, lavoro, e provo a staccare. Non sono un fan della tensione. Credo che il giusto riposo di una fonte indispensabile di rigenerazione».

Per alcuni Jeeg è un capolavoro.
«Non so neanche se esistano in assoluto i capolavori, ma anche se esistessero, Jeeg non lo è. Se qualcuno lo ha definito così è perché mancano termini di paragone. E non credo servano applausi perché secondo me un regista deve saper raccontare delle storie e lo deve saper fare intrattenendo il proprio pubblico».

Lei con Jeeg ha saputo farlo.
«Io lo vedo così imperfetto, Jeeg. Ci sono cose che emozionano le persone e non capisco perché».

La spaventa?
«Molto. Se nel secondo film inseguissi il riscontro positivo della critica sbaglierei. Mi devo ricordare di quando ero in sala di montaggio e inveivo contro il monitor perché avevo sbagliato a scegliere una location, perché non avevo diretto bene gli attori bene o perché con il sole che andava e veniva, la fotografia non era proponibile. C'è un momento in cui Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli litigano al centro commerciale. Lì lei piange e salva una scena che avevo girato proprio male. Di stronzate del genere in Jeeg Robot ne ho fatte tante e sono quelle che mi aiutano a ricordare che la prossima volta devo fare meglio. Punto e basta».

David, Nastri d'argento, globi d'oro. L'interesse di Hollywood. Come si gestisce un trionfo della portata di Jeeg?
«Relativizzando. Lo chiamavano Jeeg Robot ha avuto successo perché il nostro film si è trovato in una terra di nessuno. Quel tipo di cinema non si è fatto in Italia e noi lo abbiamo fatto abbastanza bene, senza imitare gli americani e senza rielaborare il genere italiano con modalità nostalgiche».

Perché dice il nostro film?
«Perché il cinema è un lavoro di squadra. Alle persone che concorrono alla realizzazione del mio mestiere, lo scenografo, il musicista, il montatore o lo sceneggiatore, chiedo sempre un parere. E non domando cosa pensino per fingere un'umiltà che non mi appartiene o per atteggiarmi a filantropo o a democratico ad ogni costo. Domando perché le loro risposte mi aiutano nella ricerca e perché dividere ciò che si ottiene, siano insulti o complimenti, responsabilizza tutti».

Secondo lei capita a molti registi?
«Prenda Iñárritu. I suoi primi film sovvertivano spazio e tempo. Erano un'esperienza sincronica e non diacronica. Poi ha cambiato direttore della fotografia, e passando da Prieto a Lubezki, con Birdman e The Revenant, è cambiato anche il suo cinema. Un cinema che ora, tra lunghi piani sequenza costantemente addosso al personaggio, grazie anche al lavoro di Lubezki, è formalmente differente rispetto ai suoi primi film».

Cosa vuole dire?
«Che i collaboratori non sono semplicemente esecutori e che dall'incontro tra esperienze diverse possono nascere progetti ai quali fino al giorno prima non avresti creduto neanche se te li fossi trovati davanti agli occhi».

Non essere mai soddisfatti preserva dal rilassamento e dagli errori?
«Vediamo se mi salva, vediamo. Dipenderà da come faccio il secondo film».

Intanto ha dimostrato di aver saputo fare il primo.
«Nicola Guaglianone, lo sceneggiatore che conosco da vent'anni, con cui discuto e dal quale mi allontano e mi riavvicino a ondate non senza una conflittualità che produce un salvifico scambio creativo, mi suggerisce spesso di godermi quel che è arrivato».

E lei ci riesce?
«Sicuramente ho acquisito più sicurezza in me stesso. Ora mi capita di parlare con i produttori con più piglio di ieri. Mi confronto e ragiono di cinema veramente alla pari. Pronto ad accogliere le idee degli altri quando sono valide e se invece non mi convincono provo a far prevalere le mie. Non sono malato di narcisismo, non devo difendere per forza una ridicola pretesa di autorialità, non me ne frega niente. Se il mio interlocutore ha uno spunto più brillante del mio, mi chino senza sentirmi sminuito o brutalizzato».

Nel suo mestiere il narcisismo è una malattia diffusa?
«Siamo tutti narcisi, indistintamente, e il mio mestiere è uno di quelli che con il narcisismo ha a che fare, spesso nelle forme più becere e parossistiche. È un problema che tutti i veri grandi registi che ho conosciuto hanno superato da tempo. Però anche il grande nome seduto sul suo trono, se si sente minacciato, può perdere l'equilibrio. La verità è che in una società democratica, il trono non esiste».

Lei si sente già sul trono?
«Io a volte mi sento un impostore. Ho realizzato un prodotto anomalo, una cosa che per tanti motivi non aveva provato a fare nessun altro, ma ne ho fatta una sola. Per capire se sono un regista che ha tanto da raccontare servirà tempo».

Come è stato accolto dal cinema italiano? Qualcuno si è sentito minacciato?
«I registi adulti, i grandi vecchi, quelli che per intenderci mi concedevano due quando non addirittura tre generazioni di distanza anagrafica, mi hanno accolto benissimo. E mi hanno sorpreso. Gli altri, la generazione prima della mia, un po' meno. E magari a gran parte di loro sto anche un po' sul cazzo».

Le sembra normale?
«Mi sembra nell'ordine delle cose. In fondo stiamo parlando di un microcosmo. Di un pianetino in cui si girano 30 o 40 film l'anno. In India, solo per dare un'idea, nello stesso arco di tempo se ne producono più di mille».

Di cosa parla il suo nuovo film?
«Lei sa che non posso dirglielo. Le dico invece perché scelgo un film piuttosto che un altro. La mia ricerca necessita di un materiale che da una parte mi stimoli emotivamente e che dall'altra mi costringa a spremere le meningi per trovarne la forma estetica più appropriata. Una forma che all'inizio non è definita. Sì, la visione in parte c'è, ma è annebbiata. Se fosse limpida mi annoierei a metà del percorso. Costruirla e inseguirla, una visione, mi spinge a cercarla ancora».

Mi dica di più.
«Sicuramente questo nuovo film richiede una bella dose di presunzione. Il materiale è particolarmente trasgressivo. Credo sia una scelta necessaria se si vuole produrre originalità. È meno semplice di Jeeg, perché Jeeg era impegnato in una minore commistione di generi. Nel nuovo film ce ne sono di più. Speriamo davvero di riuscire ad armonizzarli. Aho, noi ci proviamo. Quanto meno non sarà il solito film».

Quando inizierà a girare?
«Inizierò la preparazione a settembre e girerò a metà gennaio del 2018. Racconterò un mondo che non conosco fino in fondo e del quale, proprio in virtù di questa conoscenza non approfondita, cercherò di cogliere l'essenza. Detesto le operazioni didascaliche, le storie ultrafedeli o iperrealiste che sono costrette a raccontare cronologicamente quel che è accaduto. Reinterpretare o reinventare, per produrre un significato, è vitale. Altrimenti a che cazzo serve la fantasia? A che serve girare un film? Se proprio non riesci a evadere da quella gabbia, meglio fare un documentario».

Del cinema italiano ambientato in periferia ha scritto Giacomo Giubilini parlando di poetica del nuchismo: «Una ridda di personaggi afasici inseguiti riprendendone le nuche in scenari decisamente brutti ma tanto esotici e sinceri».
«Parlerei di esagerato pedinamento zavattiniano. Sti film sò tutti un pedinamento. Il pedinamento zavattiniano è molto efficace e possiede una propria forza suggestiva, ma essendo cambiati dall'epoca di Zavattini tempo e contesto, se quel pedinamento non posso sovvertirlo, se non posso cambiare la messa in scena e portare improvvisamente il mio personaggio altrove alterando la struttura, il giochino si rivela troppo semplice, l'intenzione troppo smaccata e il patto alla base del film il più delle volte non mi interessa».

Non svii. Ci dia qualche elemento sul nuovo film.
«Con ogni probabilità, per il ruolo principale, sceglierò un'attrice non professionista. Sarà un film corale e lo ambienterò nuovamente a Roma che come in Jeeg, sarà ancora protagonista, senza però che lo sia anche la periferia. Anzi, la periferia non è al centro del mio prossimo lavoro».

Cosa intende per film corale?
«Che il mio nuovo film parlerà anche di collettivi in competizione e in conflitto tra loro. In Jeeg si raccontava il percorso di una persona chiusa e introversa che odia il mondo, Enzo Ceccotti, al centro di una trasformazione che gli fa compiere un salto. Dalla sommità del Colosseo, la scoperta della sua forza gli fa abbracciare e poi conquistare un'intera città. Il mio secondo film diluirà l'individualità del primo e affronterà un viaggio corale. Su questa questione della coralità le racconto una cosa».

Prego.
«Sa come volevo intitolare Lo chiamavano Jeeg Robot? Tu sei Jeeg. E lo volevo intitolare così perché Santamaria affrontava un viaggio epico ed eroico che pur nella trasfigurazione, è un viaggio che tocca a tutti noi. Jeeg è un eroe, salva Roma e paradossalmente si prende molto sul serio. Ha un orgoglio di fondo che se ci pensa è qualcosa che ha che fare intimamente con il carattere degli italiani. Gente che conosce il proprio riscatto solo quando vede ferito l'orgoglio o si vede offesa sul piano personale. Mio padre amava Alberto Sordi e mi faceva sempre vedere i suoi film. Poi a fine proiezione sbatteva il pugno sul tavolo e si incazzava: Non siamo tutti così, non siamo solo così». In quel titolo mai venuto alla luce, Tu sei Jeeg, c'era questa speranza sottesa. Il desiderio che abbattuti i personalismi da piccolo orticello, riuscissimo ad alzare la testa e a prenderci finalmente tutti per mano. Magari riuscirò a esprimere il concetto nel mio secondo film».

C'è chi per rivoluzione dell'immaginario la paragona a Sergio Leone.
«Mi sembra un paragone impegnativo e immeritato. Di Leone dicevano che era un cafone. La sinistra radicale lo considerava un burino, un venduto che si era insozzato facendo l'occhiolino agli yankee che ci tenevano per le palle fin dai tempi del piano Marshall. Senza mai considerare la grandezza formale di Leone, il suo contributo al cinema. Un contributo gigantesco, su base planetaria».

Chi l'ha aiutata a capire cosa avrebbe voluto fare nel cinema?
«Un grande sceneggiatore come Leo Benvenuti. A titolo gratuito ci dava lezioni di sceneggiatura. Me lo fece incontrare un antico fidanzato di mia sorella ai tempi del Liceo. A scuola avevo fatto tanto teatro, le ore passate con Leo furono importanti. Siccome a vent'anni si è stupidi davvero, lasciai le lezioni troppo in fretta. Non posso neanche dirle quanto me ne sia pentito».

Che ragazzo era Gabriele Mainetti?
«Uno che si ripeteva che andava tutto bene, quando tutto bene invece non andava. Avevo grandi insicurezze. Mi sentivo felice, ma in realtà stavo male. Reprimevo molte sensazioni e un buon numero di bisogni. Avevo molta paura della vita e di come l'avrei affrontata. Un timore inconscio che mascheravo anche a me stesso. Cazzo- mi dicevo nei rari momenti di sincerità con me stesso- ma possibile che abbia così tanta paura? Ma come, mi racconto sempre che sono forte, come può essere?. In realtà dovevo soltanto accettare la mia vulnerabilità. Ci è voluto tempo. Ad alcuni miei amici, veri e propri carrarmati, potevi anche sparare. Sarebbero rimasti in piedi. Si facevano scivolare tutto addosso. Come in Crimini e misfatti di Woody Allen, mi immaginavo che prima o poi sarebbe arrivato il conto. Ma poi quel conto non arrivava mai».

Per superare l'angoscia si vestiva da supereroe anche lei?
«Assolutamente. All'epoca cosa pensassero gli altri di me era più che importante, era fondamentale. Oggi grazie a dio le cose stanno diversamente».

Assisteremo al divorzio definitivo tra cinema e tv?
«Non sono così intelligente per poter rispondere a questa domanda. Amo molto di più il cinema della tv perché non rinuncio all'idea di uno sguardo sintetico che in due o tre ore riesca a raccontarti una storia dall'inizio alla fine. La tv ha il tempo dalla sua parte, ma il prolungamento a cui assistiamo nella serialità ha troppo spesso il gusto di un whisky annacquato. Dominando la legge dell'introito economico, dobbiamo vedere i personaggi e il loro arco narrativo diluiti in tre o quattro stagioni».

Quindi?
«Tarantino sostiene che la tv sia l'esperienza dell'adesso e il cinema rappresenti l'esperienza del per sempre. Io sono innamorato del cinema, ma forse, se analizzo a fondo, può darsi che si tratti ancora e soltanto, di puro e semplice narcisismo».

 
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