«Pregherò perché Dio cambi i loro cuori» ha commentato più tardi Antonella Leardi, la mamma di Ciro Esposito, il tifoso del Napoli ucciso a Roma in una sparatoria prima di Fiorentina-Napoli finale di Coppa Italia un anno fa, saputo di quello striscione che la tirava in ballo con il “Che cosa triste, lucri sul funerale con libri e interviste” e che la metteva a confronto con un’altra mamma a lutto per una vita, per colpa della violenza nello sport, la signora De Falchi, la quale ha avuto, al proprio dolore, una reazione diametralmente opposta. È la mamma di Antonio, il ragazzo romanista ucciso a diciannove anni.
Ma chi può entrare nel cuore di una mamma alla quale viene ucciso un figlio, un ragazzo, e per di più per questioni di sport e di tifo? “Chi sono io per giudicare?” è una bellissima massima, un insegnamento che sempre bisognerebbe aver presente: l’ha detto Papa Francesco.
“Ciro per sempre” e “Daniele con noi” erano altri due striscioni che si confrontavano da una parte all’altra dell’Olimpico, dallo sparuto gruppo di tifosi del Napoli alla Sud, il ragazzo ucciso e quello sotto accusa.
Ora ci sarà il solito invito alla squalifica generalizzata, al d’ogni erba un fascio che è l’abdicazione alla giustizia ed alla ricerca di (eventuali) responsabilità. Le videoregistrazioni diranno, mentre c’è da chiedersi sempre perché all’ingresso ti spezzano la punta dell’ombrello o ti obbligano a bere anche se non hai sete perché la bottiglietta d’acqua non puoi portartela dentro, giacché potrebbe essere un “proiettile” e poi scoppiano bomboni o spuntano striscioni, probabilmente scritti all’impronta ma la strumentazione è già dentro, che certo non esaltano i valori dello sport, del tifo, dell’amore per una maglia, ma anzi fanno il contrario. Meno che mai quello che dovrebbe essere il principale di questi valori: il rispetto dell’altro. Specie di una mamma che ha perduto il suo ragazzo. E che tutti dovremmo lavorare perché non ce ne siano altre. Non con quegli striscioni e con quei cori.