Il mio Duce come Pinocchio: Pansa
e l'infanzia da Balilla nel suo nuovo libro

Piccoli Balilla si esercitano con il moschetto
di Giampaolo Pansa
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Venerdì 15 Maggio 2009, 12:57
ROMA (15 maggio9 ) - Sono stato fascista anch’io, sia pure da piccolo e per poco tempo. Il 1 ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, iniziai a frequentare la prima elementare e diventai subito Figlio della Lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto anni, in terza, si diventava Balilla. La divisa da Figlio della Lupa non mi piaceva. Con le due fasce bianche incrociate sul petto, mi sentivo un bambino ridicolo. Ma poi dicevo: l’Italia è in guerra e qualche sacrificio devo farlo anch’io. I nemici di Mussolini erano i miei nemici. Aveva imparato a conoscerli sul giornalino dei Balilla. Re Giorgietto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone, Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora.



Ma i più pericolosi erano i russi. Senzadio feroci e pure stupidi, visto che si ammazzavano tra loro. Mi spiegava “Il Balilla”: “Il terribile Stalino, l’Orco Rosso del Kremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati!”. Sull’esito della guerra non avevo dubbi: il sole della vittoria avrebbe baciato in fronte l’Italia fascista. Il Duce poteva contare su un’arma segreta, inventata da Guglielmo Marconi: il raggio della morte. Quando lo spiegavo alla nonna Caterina, lei s’infuriava: «Sono bugie e noi abbiamo già perso. Tu non capisci niente, sei solo uno stupido Figlio della Lupa!».



Nell’estate 1943, conclusa la seconda elementare, i miei decisero di mandarmi in montagna, in una colonia per i figli dei postelegrafonici, i dipendenti delle Regie Poste. Non volevo andarci, in quel paese sconosciuto e pieno di ragazzini che non erano amici. Ma venni costretto a partire. La colonia stava nascosta fra alture da poco, dalle parti di Biella. Pioveva sempre e le giornate erano tutte uguali. A cominciare dall’alzabandiera ogni mattina, con le preghiera del Balilla recitata a turno: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie...».



La bandiera si alzava, ma senza sventolare perché era fradicia a causa dell’umidità notturna. Per incoraggiarla, cantavamo: «Batti il tamburo, suona l’adunata, Balilla in gamba!, la mia squadra è pronta, moschetto a spalla, inizia la sfilata, uno, due, tra, alalà per il Duce, evviva il Re!».



L’unica attrazione era l’ora di dottrina fascista, ogni mattina dopo il caffellatte. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente di mia madre Giovanna e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle toccare!».



Tutto cambiò la mattina del 26 luglio. Nella notte era cascato il regime fascista. Lo scoprimmo perché il ritratto di Mussolini l’avevamo tolto dalla parete del refettorio, lasciando il Re da solo. Poi il direttore della colonia, un funzionario delle Poste in pensione, ci spiegò: «Sua Maestà Vittorio Emanuele III ha affidato il governo a un nostro illustrissimo conterraneo, il maresciallo Pietro Badoglio. Mussolini è stato impacchettato dai carabinieri. Io sono contento perché ho nel cuore il socialismo. Sarete contenti anche voi, spero». Mi domandai se ero contento. Però mi venne in mente soltanto Pinocchio, portato via dai gendarmi con la lucerna in testa.