Ne abbiamo parlato con Matteo Amendola, uno dei “nuovi” di questa Nazionale, ad onta dei suoi 39 anni, gran fisico e sprint: “Di certo – racconta - è perché da quando avevo 9 anni e giocavo nella Nuova Ostiense alla Montagnola, il calcio è stato il mio grande alleato. Il rifugio sicuro dai miei problemi familiari, quelli che mi hanno portato molto più tardi, intorno ai 22 anni, alla depressione e da lì al percorso psicoterapeutico. Il pallone è stato sempre il mio mondo, anche quando andavo al liceo classico all’Eur, o frequentavo l’università, prima sociologia e poi lettere, che poi la malattia mi ha costretto interrompere”.
Matteo ora lavora per la Cooperativa sociale “Il grande carro” che aiuta i pazienti psichiatrici a essere indipendenti anche dal punto di vista economico: porta la biancheria a lavare, ritirandola e riportandola alle case-famiglia dove molti di loro vivono. “Io ho la fortuna – continua - di avere una casa mia che mi hanno lasciato i genitori e poi faccio anche altro, accolgo i turisti in una casa di vacanze perché parlo un po’ d’inglese e soprattutto alleno i ragazzi di 15 anni in una società di calcio a Fonte Meravigliosa. Sì, è il calcio che continua a sorreggermi, che mi mette in relazione con la gente, una vera e propria terapia di sostegno. I medici del Centro di Salute Mentale del mio Municipio, l’undicesimo, quello di San Paolo-Garbatella sono stati eccezionali perché hanno creato una squadra di calcio a cinque già molti anni fa, ci hanno iscritto al campionato UISP che abbiamo anche vinto a livello regionale e che ci ha portato a competere anche per il campionato italiano”.
Una squadra del cuore, la Roma. “E’ stato mio fratello maggiore a condizionarmi – scherza – ma io in realtà non amo il calcio professionistico ma il nostro, quello dei campetti, del sudore e della fatica. Però adesso, in questi giorni, abbiamo noi la pressione addosso, un Mondiale è comunque un Mondiale. La selezione è stata durissima: hanno fatto provini a Bari, Milano e Roma e ci hanno presi solo in sette, più gli otto che erano già stati alla prima edizione in Giappone. Ci stiamo conoscendo tra noi e ambientando: è incredibile come, raccontandoci le nostre storie personali, viene fuori che i nostri problemi derivano dall’infanzia, tutti abbiamo sofferto da bambini. E il pallone è stato sempre il nostro strumento di relazione: io ti passo la palla, tu me la ridai, semplice no?”. Ma l’Italia può vincerla questa competizione? Ci vorrà equilibrio e per ora siamo riusciti a fare bene. Ma comunque ci resterà questa esperienza stupenda, per tre giorni al centro del mondo…”.
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