Romano Prodi
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Le nuove regole / Per un’Europa più forte il diritto di veto va superato

di Romano Prodi
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Sabato 4 Maggio 2024, 00:59

Lo scorso primo maggio abbiamo celebrato i vent’anni dal giorno in cui dieci nuovi paesi sono entrati nell’Unione Europea, attraverso il più grande processo di pacifica integrazione che la storia ricordi. Mentre due nazioni (Malta e Cipro) già appartenevano all’area democratica, le altre otto (Slovenia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania e Ungheria) si erano trovate per decenni a vivere al di là della Cortina di ferro e quindi fuori dai sistemi democratici.
Molta stampa internazionale identifica nell’allargamento il maggior successo della recente storia europea. Di certo è l’unico caso di estensione della democrazia (poi seguito dall’adesione di Romania e Bulgaria) non con la forza delle armi, ma come conseguenza di una specifica richiesta da parte dei popoli appartenenti a quei paesi. Il dialogo con la Commissione europea è stato lungo, accurato e reciprocamente rispettoso, ma anche complicato e inedito.

Si dovevano infatti cambiare radicalmente i comportamenti collettivi dei nuovi paesi, estendendo le regole democratiche in tutti i campi, dalla giustizia all’indipendenza dei media, dalle leggi elettorali al funzionamento dei mercati. Il tutto fondato sull’adesione libera e volontaria dei popoli e delle istituzioni.

Il successo economico conseguito è straordinario e riconosciuto: il reddito pro-capite di questi paesi è aumentato come mai nella loro storia. Mentre vent’anni fa era meno della metà di quello degli allora membri dell’Unione, oggi raggiunge i tre quarti. I salari sono cresciuti in una misura che va dal 300% della Polonia fino al 500% dei paesi baltici. Un rovesciamento di tale entità che, in molti di questi paesi, la fuga dei cervelli ha cambiato direzione e, come non è ancora avvenuto in Italia, si assiste ad una loro emigrazione di ritorno.

Tutto questo ha provocato anche conseguenze e reazioni non sempre positive in Francia, Germania, Italia e negli altri paesi a più elevato livello di reddito, proprio perché i bassi salari hanno spostato imprese e investimenti verso i nuovi membri dell’Unione e copiosi aiuti europei sono stati impiegati a sostegno del loro sviluppo. Negli ultimi anni i rapporti concorrenziali sono progressivamente cambiati e gli aumenti salariali hanno iniziato a provocare severe selezioni nell’ambito delle imprese che si erano trasferite contando sul basso costo del lavoro. I nuovi membri dell’Unione hanno progressivamente aumentato costi e produttività ma, nel frattempo, sono progressivamente divenuti robusti importatori dei nostri prodotti.

Più complessa è stata l’evoluzione dal punto di vista politico perché l’adesione alle regole democratiche e ai diritti dei cittadini, elementi fondamentali dell’appartenenza all’Unione Europea, non sono stati ovunque rispettati. Per lunghi anni i governi di Polonia e Ungheria, e ancora oggi il governo ungherese, hanno violato le regole della convivenza democratica e calpestato i diritti, approfittando della debolezza delle regole dell’Unione e, soprattutto, della possibilità di esercitare il diritto di veto o della ripetuta minaccia di servirsene per ritardare all’infinito le decisioni europee non ritenute convenienti.

Tutti questi problemi e queste difficoltà hanno naturalmente provocato reazioni negative di una parte non trascurabile delle opinioni pubbliche dei vecchi membri dell’Unione.

Si è infatti obiettato che l’allargamento era stato eccessivo, affrettato e senza il mutamento delle regole di governo dell’Unione. Quest’ultimo punto ha un grande elemento di verità perché i processi decisionali non possono essere gli stessi in un’Europa con pochi o con molti paesi membri. Si è tuttavia voluto dimenticare che vi era stato un generale accordo per cambiarli proprio in concomitanza con l’allargamento. L’obiezione riguardante l’eccesso nel numero dei nuovi membri ammessi era inconsistente fin dall’inizio, ma è del tutto scomparsa con la guerra di Ucraina, obbligandoci a riflettere come sarebbe ora l’Europa se la Polonia, o i paesi baltici, si trovassero sospesi nel vuoto. Senza contare il fatto che l’allargamento dell’Unione è avvenuto nel breve spazio di tempo durante il quale non ha trovato alcuna opposizione da parte della Russia.

Anche quando si celebra un avvenimento che si considera grandemente positivo non si può tuttavia pensare solo al passato. Il processo di adesione di nuovi paesi va quindi completato con la medesima serietà e la medesima diligenza usate in passato, ma deve essere accompagnato dalle riforme istituzionali indispensabili per governare un’Unione di oltre trenta paesi, cominciando dalla messa al bando di ogni diritto di veto. Il prezzo del completamento dell’Unità Europea non può essere infatti la sua paralisi, come è troppe volte avvenuto. Si tratta di un processo da portare a termine in modo chiaro, rapido e definitivo. Mi auguro perciò che il nuovo Parlamento Europeo, che eleggeremo fra poco più di un mese, apra finalmente il dibattito su quali debbano essere i confini dell’Europa e su come e quando il processo di costruzione europea debba essere completato.

Concludo queste mie riflessioni con un riferimento diretto al nostro paese, ricordando che il confine fra Italia e Slovenia era, fino a vent’anni fa, quasi invalicabile, mentre ora le due Gorizie sono impegnate nella comune celebrazione dell’anno della cultura europea. Abbiamo ancora tanto lavoro da fare per cogliere in pieno i frutti del grande passo compiuto il primo maggio del 2004 ma, almeno in questo caso, dobbiamo essere orgogliosi di lasciare ai nostri figli il messaggio che anche le ferite più profonde e laceranti possono essere rimarginate.

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