Alcatraz, il progetto del visionario produttore di rum: dal rugby pace e lavoro a gang criminali, detenuti e senza tetto Video

Alcatraz, il progetto del visionario produttore di rum: dal rugby pace e lavoro a gang criminali, detenuti e senza tetto Video
di Paolo Ricci Bitti
6 Minuti di Lettura
Giovedì 30 Novembre 2017, 18:23 - Ultimo aggiornamento: 2 Dicembre, 17:22
C'è un luogo, in una delle nazioni più violente del mondo, in cui i capi di due sanguinarie gang si sfidano non a colpi di pistola, ma giocando a rugby.

Sempre in quel luogo - Revenga, un'ora a ovest di Caracas - e sempre grazie al rugby, in pochi anni il tasso di omicidi è passato da 140 ogni centomila abitanti a 12 (sì, dodici), mentre nel resto del Venezuela, nazione così alla mercé dei delinquenti da competere con l'Iraq, è salita nello stesso periodo da 75 a 79 (in Italia siamo allo 0,69).

Ancora in Venezuela e ancora a Revenga arrivano periodicamente studiosi di Harvard, Oxford e della Sorbona e inviati del Financial Times o della Bbc per studiare non il tracollo economico e politico del paese con la più grande riserva di petrolio del pianeta, ma il più straordinario progetto di inclusione sociale messo in piedi da un miliardario produttore di rum costretto, 17 anni fa, a fronteggiare nello stesso momento il devastante piano di espropriazioni del populista autoritario Chavez, l'assalto dei disperati senza lavoro e senzatetto e gli attacchi delle potenti gang criminali.

Molte aziende scelsero di espatriare o di armare eserciti privati rinchiudendosi nei loro fortini, invece Alberto Vollmer Herrera, 49 anni, antiche radici tedesche con avventurose ramificazioni fino a Simon Bolivar, ha tolto le recinzioni della trisecolare distilleria Santa Teresa e ha guardato tutti negli occhi: “Se volete invadare le mie proprietà fate pure, ma sappiate che io invaderò i vostri cervelli”.

Un bluff disperato? No, la visione di un imprenditore illuminata che puntava sui valori della famiglia che cinque generazioni fa, nel 1796, fondò la Santa Teresa, prima produttrice del rum in Venezuela e fra i più grandi produttori del mondo, e su quello sport, il rugby, imparato mentre frequentava il liceo a Parigi a metà degli anni Ottanta. Vollmer, terza linea (in mischia, insomma), se la cavava bene al punto di essere titolare nell'under 18 dello Stade Francais, il club capitanato in questi ultimi anni dal leader azzurro Sergio Parisse.

Ma il pallone ovale è tuttora un oggetto parecchio misterioso in Venezuela, 62° nel ranking mondiale che conta 103 nazioni.

“Sì, ma non esiste un altro sport che ti chiede di essere sempre al servizio della squadra; aggressivo, ma nel rispetto delle regole, e onesto nel riconoscere il valore dell'avversario con cui si divide il bere e il mangiare nel terzo tempo”, dice Vollmer al Guido Reni District di Roma invitato dalla Bacardi che d'ora in poi distribuirà i suoi rum.

Ben piantato, spalle larghe, occhi celesti, sorriso contagioso, Vollmer racconta per la prima volta in Italia la storia che ha stregato migliaia di studenti e di businessmen. E' in giacca e cravatta, ma nella maggior parte delle foto indossa la maglia bianconera a righe orizzontali della Fondazione Santa Teresa Rugby Club mentre insegna su campi polverosi l'Abc di mete e placcaggi a ex criminali o ai loro figli. «Con questa maglia – gli ha detto una volta un detenuto - mi sento protetto dalla pallottole e della tentazione di tornare a spacciare droga».

«Nel 2000 il capo della sicurezza – dice Vollmer, definito anche il Bruce Wayne (Batman) del Venezuela – mi avvisa che un nostro terreno era stato invaso da 500 famiglie senza tetto, centinaia di disperati privi di tutto. Potevo chiamare la polizia, ma ho voluto prima tentare di parlare con il loro capo: “Potete restare, ma a patto di lavorare per me. Penserò io alla scuola per i vostri figli e alle abitazioni”. Poi ho portato maglie e palloni da rugby e i bambini hanno subito iniziato a giocare trascinando anche i loro genitori».



«L'anno seguente il componente di una gang criminale minaccia i nostri dipendenti con una pistola. Lo blocchiamo e scopriamo che aveva sulla coscienza una montagna di  reati. Ci vado a parlare: “Preferisci che ti consegniamo alla polizia o resti a lavorare per noi per tre mesi?”. Dopo tre giorni mi chiede se posso fare la stessa offerta ad altri due ragazzi della gang. Arrivano in 16, compreso il capo, un tipo da brividi. Accettano tutti di restare. E imparano a giocare a rugby. Qualche mese dopo si presenta un'altra gang, quella dei Cimiteri, gente che fa paura solo a sentirne il nome. Sono in 32: assunti anche loro nella distilleria».

Due gang sotto lo stesso tetto?

«Già, era un problema. Anche quelli dei “Cimiteri” iniziano a giocare a rugby e mi viene in mente di organizzare una sfida in campo fra le due gang, ma c'era una sorta di impedimento: i giovani della prima gang erano diventati in fretta assai bravi mentre gli ultimi arrivati erano ancora ai primi passi. Beh, ho tentato il tutto per tutto: sfida fra squadra miste, per bilanciare le capacità. I due capi, Darwin e José Gregorio, alla mia proposta, si sono fissati negli occhi facendo scintille, poi hanno guardato me. Ho pensato: “Adesso mi ammazzano”. E hanno detto di sì. Match duro, ma rispettando le regole: che partita! Darwin ora è il tutore preferito dai miei figli mentre José Gregorio è diventato allenatore di terzo livello per il coordinamento di tutte le nostre squadre».

Nel giro di un paio di stagioni è nato il progetto Alcatraz e poi quello Invictus: oggi giocano a rugby a Revenga oltre 2mila bambini e 500 adulti mentre 300 detenuti (provenienti da oltre 10 gang) lo hanno scoperto in 8 carceri. A tutti costoro sono legati almeno 55mila venezuelani che possono parlare per la prima volta di lavoro, tranquillità, sicurezza. Speranza.

«Si immagini che cosa ha comportato inserire il rugby nelle prigioni venezuelane».

Quelle di fatto nelle mani degli stessi detenuti?

«Insomma, è stata necessaria un'enorme pazienza diplomatica con tutte le persone e gli enti coinvolti. Adesso le squadre delle carceri, sia pure scortate dagli agenti penitenziari, vanno anche in trasferta».

I primi detenuti che hanno giocato con continuità a rugby dietro la sbarre sono stati gli Espartanos in Argentina, prediletti da Papa Francesco, e negli ultimi anni sono diventate almeno sei le carceri italiane con squadre iscritte alla serie C che giocano sempre “in casa”. Ma i rugbysti di Alberto Vollmer sono i protagonisti di una storia che ha inciso come nessuna altra nello scenario politico e sociale di una nazione.



«Ora ci rispettano anche il Governo – dice ancora Vollmer - e gli stessi partiti di opposizione, in un contesto di cui conoscete i profondi e terribili travagli, con una povertà estrema e con migliaia di bambini esclusi dal sistema scolastico. All'inizio c'era qualche dubbio, qualche sospetto, sulle nostre attività sociali, sul nostro essere neutrali nel contesto politico, concentrati "solo" nel nostro lavoro di produrre rum sempre migliori e nella missione di aiutare i venezuelani più poveri. Il rugby, poi, chi lo conosceva? Ma i risultati ottenuti a Revenga, a cominciare dal drastico calo di omicidi e fatti di sangue, hanno convinto tutti. Si è capito che alla Santa Teresa, che ha oltre due secoli, lavoriamo ogni giorno pensando ai prossimi 200 anni. Vogliamo essere incondizionatamente costruttivi».

Anche l'Irb (la Fifa del rugby), attraverso la federazione venezuelana, si sta interessando ad Alcatraz.

«E, mi raccomando, scriva che abbiamo già ospitato allenatori francesi e inglesi. Un nostro giocatore è stato ingaggiato in Uruguay e i nostri progetti sono stati adottati dalla Colombia. Voglio dire che se in Italia, e mi rivolgo pure alla Federazione italiana rugby (che in effetti ha un accordo con il ministero di Grazia e Giustizia, ndr), ci sono tecnici e giocatori che vogliono fare un'esperienza anche solo di qualche mese in Venezuela, saranno accolti a braccia aperte alla Santa Teresa».

 
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