Aristide Barraud, si ritira il rugbysta ferito dai terroristi nella notte del Bataclan: «Se gioco rischio di morire»

Aristide Barraud
di Paolo Ricci Bitti
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Giovedì 27 Aprile 2017, 16:38 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 00:27

Il terzo miracolo al rugbysta Aristide Barraud, ferito dai terroristi a Parigi due anni fa nella note del Bataclan, non è riuscito e adesso ha deciso di compiere il passo più doloroso e di rinunciare al sogno che per un anno e mezzo l'ha spinto a lottare senza tregua: il mediano di apertura del Mogliano, 28 anni, si ritira, non giocherà più, lui che stava per essere chiamato in nazionale. Il club veneto ha diffuso la lettera del giocatore: un testo che di nuovo  placca al cuore, come tutti gli interventi di questo giocatore passato così vicino alla morte e capace di ispirare la voglia di combattare il male con la forza della speranza. 

"Ari", fisico da regista, rapido, nessun eccesso di muscoli,  è sopravvissuto a due colpi di kalashinikov dei jihadisti nella notte parigina del Bataclan. Due colpi devastanti: nessun medico, quella notte del 13 novembre 2015 aveva scommesso un centesimo sull'esito di un'operazione disperata.

Il secondo miracolo Barraud l'aveva vissuto tornando alla vita normale: camminare, correre, saltare, calciare un pallone ovale. Un altro obiettivo che pareva disperato: un lungo percorso di interventi chirurgici a una caviglia, a un polmone, all'addome, alle costole, affrontato insieme alla sorella Alice, di due anni più giovane, anch'ella ferita gravemente a un braccio dai colpi dei terroristi davanti al ristorante Petit Cambodge e determinata a rientrare nel gruppo di acrobati con cui girava il mondo. 
 
Fin da quando aveva riaperto gli occhi dopo l'anestesia, Barraud, studente di cinematografia alla Sorbona, autore di documentari sugli operai delle periferie parigine, aveva lanciato un messaggio di riconciliazione e speranza: "L'amore è più forte della morte". Un impegno civile che il rugbysta, che da equiparato era in procinto di entrare nel gruppo azzurro con il ct Brunel, aveva già messo in atto intervenendo in prima persona dopo la strage a Charlie Hebdo. Un impegno che aveva spinto il Messaggero a dichiararlo rugbysta dell'anno 2015 e che l'anno scorso l'aveva visto protagonista di un'intervista all'Equipe di ritagliare e tenersi in tasca, tanto era potente il carisma che ne affiorava.


E in infine, sempre nel 2016, un'altra prova di coraggio contagiosa: lui, Alice e i loro corpi di atleti martoriati dalle cicatrici, protagonisti di un documentario (autrice Letizia Krupa, produzione 10.7 e L'Equipe) che lascia senza fiato per l'incredibilmente reale catena di circostanze e di battaglie che hanno segnato la vita di fratello e sorella. 


Mancava il terzo miracolo, il ritorno al rugby da professionista: degno finale di un film, sarebbe stato, ma Barraud non è tipo da film con "lieto fine", lui è uno da documentari in bianco e nero. E' passato da un'operazione all'altra. Ha chiesto ai medici ortopedici di applicargli un'altra protezione al costato sbriciolato dalle pallottole perché la prima non attenuava abbastanza l'effetto degli impatti con gli altri giocatori. Ha combattutto con i malesseri causati dai farmaci dati per tenere in vita quel corpo ormai senza sangue durante l'intervento al polmone la notte dell'attentato. Ha corso, ha saltato, ha calciato di nuovo la palla ovale tra i pali, ha allenato i ragazzini del Mogliano ed ha accompagnato i compagni di squadra in trasferta per vivere insieme vittorie sconfitte. Ha lottato contro il dolore, lo scetticismo dei più, la paura di non farcela, la fatica di sfinirsi in palestra. Adesso però sono stati i medici a metterlo in guardia: tornare a giocare significava rischiare di morire. E allora Barraud l'altra sera ha guardato negli occhi i compagni e ha detto loro che avrebbe cancellato il sogno di tornare a giocare con loro. Ha detto a quegli amici quello che ha poi scritto nella lettera che trovate di seguito.

Barraud si ritira dalla vita di rugbysta, ma non significa che alzi bandiera bianca. Vuol dire continuare a lottare con altri mezzi per altri obiettivi. Sentiremo ancora parlare di lui, per nostra fortuna.   

LA LETTERA
“Ho lottato, dal primo giorno in cui mi sono reso conto di cosa era successo. Ho scelto di tornare sul campo contro le raccomandazioni dei chirurghi. Mi hanno assecondato e ho iniziato questo percorso pazzesco, recuperando la forma fisica al di là di tutte le previsioni, grazie all’aiuto ed al sostegno che ho ricevuto.

La mia società Mogliano Rugby, i Lyons Piacenza, la Federazione, i miei amici, lo staff, la dirigenza, sono stati fantastici fin dal primo giorno. Nicolò Pagotto e Marcella Bounous mi sono stati vicini quando serviva, senza di loro non avrei potuto fare niente.

Giorgio Da Lozzo, con il quale ho fatto dei passi incredibili. La sua professionalità, le sue competenze e la sua amicizia, sono stati le miei armi per continuare a lottare contro le sofferenze che provavo. Ho conosciuto quotidianamente dei dolori che mai avrei potuto immaginare.

Ho ricevuto messaggi da tutta l’Italia, tutte sollecitazioni che mi hanno dato la spinta e la carica necessaria per superare positivamente ogni secondo delle mie giornate.

Proprio come su un campo da Rugby, dove da solo non sei nulla, insieme agli altri puoi realizzare qualsiasi cosa, quindi mi sono fatto aiutare e ci ho creduto dal primo all’ultimo giorno.
Ma adesso qualcosa è cambiato. Da tre mesi ho visto il mio corpo non accettare più lo sforzo fisico e inviarmi segnali negativi, troppi. Ho 28 anni, il mio corpo è a dir poco distrutto. Due mesi fa mi hanno diagnosticato ulteriori problemi causati dalle cure effettuate per tenermi in vita. Con tutti gli altri danni fisici subiti, non sono cose che posso trascurare ed ho iniziato ad aver paura per la mia vita. Tornando a giocare rischio oggettivamente la morte, e morire in campo, davanti ai miei amici e a chi mi vuole bene non mi sembra assolutamente una buona idea.

Volevo arrivare fino in fondo, raggiungere l’obiettivo che pensavo fosse tornare quello di prima, ma evidentemente non mi ero reso conto di quanto fosse realisticamente impossibile. Ho lottato con tutte le mie forze e sono vivo, spaccato, distrutto, ma ancora in piedi ben saldo sulle mie gambe. Il rugby mi ha salvato la vita, l’idea di tornare a giocare mi ha salvato la vita. Mi ha tenuto lontano anche dall’incubo della follia. Però adesso devo ascoltare quello che il mio corpo mi sta dicendo da tempo, sono arrivato al limite e non intendo più oltrepassarlo.

Mi sono chiesto spesso cos’è davvero il coraggio, se insistere su questa strada sfidando la morte, oppure avere la forza e la lucidità per rinunciare ad inseguire un sogno troppo grande ed irraggiungibile. Non ho una risposta e non la voglio nemmeno trovare, semplicemente mi fermo qui, ma a testa alta. Sono felice per aver vinto l’ultima partita della mia carriera alla presenza di mio papà, di aver messo tra i pali il mio ultimo calcio. Ho dato il massimo superando qualsiasi aspettativa dei medici. Lo stesso ha fatto anche mia sorella, che in quanto a determinazione mi assomiglia moltissimo. Non avrò rimpianti per non averci provato ed è questa la cosa che mi sembra più importante.

Adesso ho bisogno di continuare a curarmi, nel corpo e nella testa. Sono stato in “battaglia” dal primo giorno, da quando mi sono svegliato più morto che vivo. Ho bisogno di tempo, ed ho voluto scrivere queste righe perché in questo momento non voglio rilasciare altre interviste e parlare ancora di queste cose. Voglio staccare con tutto, anche con il Rugby. Tornerò, sicuramente tornerò, perché questo sport è la mia vita, ma lo farò quando starò davvero bene e potrò dare il meglio di me stesso per gli altri.

Penso che un domani potrò essere utile a quelli che rappresenteranno il futuro di questo sport. Amo il rugby e amo la gente che lo vive con passione. L’Italia mi ha dato tantissimo e un giorno vorrei poter restituire quello che ho ricevuto. Sono stati 4 anni durante i quali sono cresciuto diventando l’uomo che volevo essere. Ho costruito delle amicizie che dureranno per la vita, e una parte di me rimarrà italiana per sempre.

Non potrò mai ringraziare abbastanza tutti quelli che mi hanno aiutato e sostenuto, forse il modo migliore è quello di promettervi di non mollare mai e di continuare a vivere con forza e determinazione, tenendo sempre ben stretto nel profondo del mio cuore quanto mi avete dato.
Ciao a tutti.”
Aristide

LA NOTA DEL MOGLIANO
Un anno e cinque mesi di lotte e sacrifici, di speranza e determinazione, tanto tempo dedicato a raggiungere un obiettivo che significava ritornare alla quotidianità, persa in pochi attimi di follia.

Per poterci arrivare lo sforzo è stato a momenti insopportabile, tra traguardi intermedi, illusioni e disillusioni, fino ad arrivare ad oggi, alla resa dei conti con se stesso ed alla presa di coscienza che per ottenere quello che conta, quello che vuole davvero, deve smettere di mentire.

Aristide si è arreso! Non alle ferite, non a chi gli ha fatto del male, Ari si è arreso alla voglia e alla necessità di tornare veramente a vivere un futuro possibile.

Durante le serate in cui la squadra, al termine dell’allenamento, si ritrova in Club House per cenare tutti insieme, Ari divide i compagni in gruppi, organizza giochi, ti trascina nelle sue invenzioni. Nell’ultima occasione no, ha aspettato che tutti finissero, si è seduto sul bancone del bar ed ha preso la parola raccontando in maniera lucida e semplice la verità. La verità sulle sue reali condizioni fisiche, la verità su quello che ha passato in questi lunghi mesi di riabilitazione, la verità su quello che pensa in ogni momento del giorno e della notte, la maggior parte delle quali passate insonni per i dolori costanti causati dagli allenamenti a cui si è sottoposto finora. Ha raccontato l’importanza che l’amore ed il sostegno di chi gli sta vicino, degli amici, tutti, hanno avuto nel farlo rimanere vivo. Ha condiviso, infine, la decisione che ha maturato e che gli sta dando nuova forza e serenità.

Poche sere fa, mentre insieme ai compagni stava cucinando una delle usuali grigliate, ha espresso il desiderio di poter dire le stesse cose a tutti, una sola volta, raccontare la verità e poi lasciarsi tutto alle spalle per andare finalmente avanti. Nell’ultima partita dei suoi compagni davanti al pubblico di casa, ha battuto il calcio d’inizio salutando il “Quaggia” a modo suo. Ora vuole comunicare con una lettera la sua decisione attraverso il sito della Società, in occasione della sua ultima trasferta con la squadra. 
(Alfio Guarise)

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