In Paradise affronta l’Olocausto attraverso le storie di tre personaggi che s’intrecciano durante e “oltre” la guerra: un’aristocratica russa membro della Resistenza francese, un commissario collaborazionista francese e un ufficiale tedesco delle SS. Sullo sfondo l’inferno dei campi di sterminio, sullo schermo un potente bianco e nero.
Il cinema ha parlato spesso della massima tragedia contemporanea: perché ha voluto farlo anche lei?
«Paradise non è un film sulla Shoah ma sulla seduzione del male, che a volte si presenta con un volto attraente».
Perché l’ha girato in bianco e nero?
«Sarebbe stato osceno filmare i campi di concentramento a colori. Gli ebrei in pigiama a righe sarebbero sembrati comparse di un musical o del Nabucco. Niente come il bianco e nero rende il dolore, la violenza e la morte».
L’Olocausto rischia di essere dimenticato, specialmente dai più giovani?
«Per dimenticare devi conoscere, e oggi nessuno sa niente. Internet, come denunciava Umberto Eco, ha cancellato la memoria. Anche l’Olocausto è stato banalizzato: la gente si fa i selfie a Auschwitz, ma non conosce la storia. L’amnesia collettiva mette a rischio la civiltà umana».
I fondamentalisti islamici sono i nuovi nazisti?
«Il fondamentalismo unisce tutti i movimenti musulmani radicali di estrema destra. Non bisogna confondere il nazismo con il nazionalismo, una filosofia che, considerando una nazione superiore alle altre, giustifica lo sterminio. Di origine anglosassone, spiega le atrocità commesse in Africa nel 18mo secolo dai colonialisti».
Come si manifesta, oggi, il male?
«Ad esempio quando si bombarda la Serbia, la Libia, l’Iraq in nome della democrazia e della libertà».
Come definirebbe, in defintiva, Paradise?
«Una riflessione sul Ventesimo secolo e sul pericolo della retorica dell’odio che ancora oggi minaccia le vite e la sicurezza di milioni di persone nel mondo».
Come si passa da un film d’azione con Stallone alla tragedia dell’Olocausto?
«Sono un artigiano e amo tutte le espressioni del cinema. È sempre la curiosità a motivare il mio lavoro».
Ha proprio chiuso con Hollywood?
«Ormai gli americani fanno solo film per ragazzini e gente che non legge. Non posso fare un cinema da pop corn».
Chi è, per lei, Robert Bresson?
«Un artista che non si accontentava di rimanere alla superficie delle cose e mostrava cosa c’è dietro».
Il film migliore sull’Olocausto, a suo avviso?
«Non me ne viene in mente nessuno. Preferisco i libri come Se questo è un uomo di Primo Levi».
Non le è piaciuto nemmeno “La vita è bella” di Benigni?
«Film toccante ma non parla dell’Olocausto, piuttosto della capacità umana di resistere al male».
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