«Abbiamo cambiato l’equazione»: il comandante in capo delle Guardie della rivoluzione islamica, Hossein Salami commenta trionfalmente la notte di missili e droni verso il territorio israeliano.
«Ora attaccheremo dal suolo iraniano contro qualsiasi altra aggressione israeliana». Ma accanto ai toni da bollettino di vittoria, arriva anche la precisazione che forse rende meglio lo stato d’animo e le preoccupazioni dell’establishment iraniano, rappresentate poi anche all’Onu: se Israele non reagisce - questa la sostanza - per noi la questione si chiude qui. Ma se così non fosse ribatteremo colpo su colpo.
Iron Dome, gli F18 Usa, i caccia francesi, i jet della Raf: ecco lo scudo anti-missili di Israele
Perché l'Iran fa paura
Non sfugge neanche a Teheran che gli attacchi dal cielo, al di là delle celebrazioni e dei festeggiamenti nelle strade, non hanno praticamente raggiunto il territorio israeliano, intercettati nel 99% dei casi dallo scudo protettivo messo insieme da Usa, Gran Bretagna, Francia a cui si è aggiunta anche la Giordania.
Un’operazione militare che ha offerto una grande occasione ad Israele per uscire dall’isolamento internazionale a cui le guerra di Gaza e la grave crisi umanitaria l’avevano spinto. Ma l’attacco ha involontariamente riportato in primo piano un tema che da sempre l’Iran vuole tenere lontano dai riflettori: la politica nucleare avviata da anni dalla Repubblica islamica e che si avvicina pericolosamente al traguardo dell’arricchimento dell’uranio. Sono in molti oggi ad interrogarsi sui rischi delle armi nucleari nelle mani degli Ayatollah. E questo, se non ora certamente in futuro, sarà valutato con grande attenzione dagli strateghi militari israeliani che da anni studiano come fermare la costruzione delle centrali. L’azione di sabato sembra rispondere più alle esigenze d’immagine, sia all’interno del paese sia verso gli alleati, i cosiddetti “proxy”, costringe la Repubblica islamica a lasciare il ruolo comodo e ambiguo di grande burattinaio e riconferma i confini della geopolitica dell’area.
I FRONTI
Da un lato, sostenuta da Russia e Cina, l’Alleanza filo-sciita le cui mosse vengono decise dalla teocrazia di Teheran che ha sapientemente fatto entrare in scena gli attori a sostegno dei terroristi di Hamas, sia sul confine nord, dove operano gli Hezbollah, sia da sud con le incursioni sempre più frequenti degli Houthi contro le navi mercantili. E ci sono poi altri due fronti mantenuti vivi per impegnare le forze armate israeliane. Quello con le milizie irachene diventate di fatto la filiale locale delle Guardie della Rivoluzione. E il versante siriano dove i pasdaran iraniani che per sostenere il regime di Assad avevano reclutato anche gruppi provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan, ora spingono gli Hezbollah a minacciare e attaccare Israele dalle alture del Golan. Nel campo opposto, gli Usa nonostante le gravi divergenze con Netanyahu, non si sono sottratti all’impegno di proteggere militarmente l’alleato storico, affiancati da Regno Unito e Francia e dai paesi arabi moderati a cominciare da Egitto e Giordania e che possono sicuramente contare sui paesi del Golfo che hanno sottoscritto nel 2020 gli accordi di Abramo e soprattutto sull’Arabia Saudita, custode dei luoghi santi di Medina e La Mecca. Tutto questo mentre nel paese i dissidenti, le donne, gli intellettuali continuano le loro coraggiose battaglie per le libertà cancellate dal regime degli ayatollah. Lo scorso anno sono state più di 853 le condanne a morte eseguite. Le donne continuano ad essere picchiate e perseguitate se non indossano il copricapo, in poco più di una decina di anni le università hanno espulso 157 professori sostituendoli con insegnanti “religiosi” o “rivoluzionari”.