15 anni di Italrugby da raccontare
Azzurrissimo Mauro Bergamasco

15 anni di Italrugby da raccontare Azzurrissimo Mauro Bergamasco
di Paolo Ricci Bitti
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Lunedì 4 Novembre 2013, 10:47
Ma come, alla sua et continua ad andare avanti passando indietro? Veramente il titolo di quel libro “Andare avanti guardando indietro” - risponde Mauro Bergamasco, 34 anni, 94 presenze e 15 mete per l’Italia - e poi io conosco benissimo il giorno in cui smetter di giocare.

Fuori la data



«La prima volta che non mi divertirò più, in allenamento o in partita, chiuderò serenamente la carriera di giocatore. Con un sorriso, come mi ha insegnato mio padre Arturo». Allora stiamo freschi: è che Mauro Bergamasco è a una manciata di giorni dal cancellare un record di longevità azzurra che si credeva imbattibile in tempi di spietato rugby professionistico. Davanti ha solo Sergio Lanfranchi, in nazionale per 15 anni e due giorni dal 1949 al 1964 con appena 21 presenze: normale per quel rugby dilettantistico.



Il 18 novembre taglierà i 15 anni da quando nel 1998 Georges Coste lo chiamò per le partite di qualificazione ai Mondiali dell’anno seguente.

«Non ci avevo ancora pensato». Dicono tutti così. «(ride) Ma no, ma no: l’orgoglio non lo nascondo anche se lo metto insieme all’umiltà - risponde la terza linea delle Zebre di Parma, scudetti con Treviso e Stade Francais - Figuriamoci se non fanno piacere certi traguardi, tuttavia preferisco tenerli nel cassetto del comodino. Sopra, con un libro sullo sciamanesimo degli indiani del nord America, ci sono altri obiettivi, come i risultati in campo, perché partecipare senza vincere non mi è mai piaciuto».



Allora cominciamo con l’Australia (reduce dal ko a Twickenham) il 9 novembre a Torino, poi con le Fiji il 16 a Cremona e infine con l’Argentina il 23 a Roma.

«Brutti clienti, ma ce la metteremo tutta, come sempre. Intanto un passo alla volta: come ho imparato a fare negli anni, oggi sono orgoglioso di essere stato chiamato ancora una volta nel gruppo da Brunel, poi conquistare un altro cap sarà sempre durissimo».



Il 19enne Mauro che giocò senza paura contro l’Inghilterra (e quasi vinceva) che differenze vede nei novellini di adesso come Campagnaro o Iannone?

«(sospiro) Gli occhi luccicano di entusiasmo allo stesso modo: mi emoziona vederli arrivare ai ritiri. Poi, io, con uno stupore bambino che conservo come un tesoro, capitai in un gruppo di uomini che lottava con una ferocia commovente per una terra promessa che tutte le generazioni precedenti di rugbysti italiani neppure potevano sognare: conquistare l’accesso al Sei Nazioni. Adesso invece si combatte, con la risorsa del professionismo, per alzare la qualità della nostra partecipazione al Torneo più avvincente del mondo».



Suona meno affascinante.

«Macché: un ventenne di oggi è nato “dentro” una nazionale che lotta sempre fra le prime 10 squadre del ranking: un paradiso. Giri il pianeta, giochi sempre nei grandi templi del rugby, fai il tutto esaurito all’Olimpico, partecipi alle Coppe europee, affronti regolarmente gli All Blacks e il Sud Africa e l’Inghilterra. Che vuoi di più? E poi il professionismo non ha limato nemmeno uno dei valori di questo sport che in sé ha gli anticorpi per non ammalarsi di eccessi, di volgarità, di ipocrisia, di noia. Da pro’ o da dilettante giochi a rugby solo se ci metti la faccia».



Una tua foto mentre canti Fratelli d’Italia è stata messa a confronto con uno schizzo di Leonardo da Vinci per la Battaglia di Anghiari: una stampa e una figura, direbbe Montalbano.

«(arrossisce) Il fotografo Verdino ha avuto un bella intuizione, una ricerca estetica, la sua, che va oltre i calendari che hanno reso molto conosciuti i rugbysti».



Non vi faceva certo dispiacere scoprire cosce e bicipiti.

«Già, e chi lo nega, negli otto anni a Parigi allo Stade Francais era quasi imbarazzante confrontarsi con la popolarità di quei calendari che sono stati utilissimi per far uscire il rugby dal recinto degli appassionati tradizionali, ma adesso c’è un’altra percezione di noi e del nostro sport».



Aumentano costantemente i bambini del minirugby.

«I valori di questo sport sono diventati evidenti alla massa. E ricercati, soprattutto ora in cui bisogna pur aggrapparsi a qualcosa di sincero. Così si riempiono gli stadi anche se il pronostico ci è quasi sempre contro, così si mandano i figli piccoli a placcare. Con mio fratello Mirco, ai ragazzini che partecipano al nostro campus, diciamo che nel rugby, come nella vita, bisogna andare avanti, mettersi in gioco, sapendo che potrai contare sul sostegno del tuo compagna di squadra che ti è dietro. Da soli, dimenticando le radici e gli amici, non si va da nessuna parte».



Il ct Jacques Brunel ha chiamato te, ma non Mirco (29 anni).

«Mi dispiace, ma ho detto a mio fratello che dopo l’infortunio che ha subìto un anno fa (rottura della rotula) deve avere pazienza anche se adesso si sente già in piena forma».



Da Coste a Brunel, in mezzo tanti anni a Parigi: vive la France?

«Beh, Parigi mi manca, ma la vita continua. Brunel? È stato in grado di interpretare un momento difficile per questa nazionale e di rilanciarla. Lui, come Coste (pur avendo i due caratteri assai diversi), è capace di entrarti nell’anima prima ancora che nel cervello: il fattore tecnico viene dopo, conseguenza dalla condivisione degli intenti».



E cioè?

«Giocare sempre al massimo delle potenzialità: se non vinci esprimendoti così vuol dire che gli altri sono più forti e allora li applaudi e ci vai a bere una birra insieme ancora più volentieri».
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