Rugby Sei Nazioni Femminile, Duca: «Possiamo battere il Galles. Futuro? Insegnerò in un asilo nido»

La trentunenne: «Dopo il torneo comincerò un tirocinio. Dobbiamo spingere le bambine a provare questo sport. Togliere il pregiudizio aiuterebbe»

Giordana Duca, seconda linea classe 1992 (Foto: FIR/Getty Images)
di V.B.
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Venerdì 26 Aprile 2024, 13:52 - Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 15:19

Un grande sorriso, speranze per il futuro e gli occhi fissi sul Galles. Questo è Giordana Duca, seconda linea classe 1992 dell'Italia Femminile di Rugby che sabato 27 aprile scenderà in campo contro la nazionale del Regno Unito nell'ultima giornata del Sei Nazioni. La giocatrice originaria di Frascati, ora al Valsugana, sa già come affrontare le sue avversarie, con i punti di forza già individuati e ben studiati. Sullo sfondo di questo match, l'accesso al Mondiale (che può avvenire solo se l'Irlanda batte la Scozia), ma anche speranze per il futuro. Sia di questo sport che il suo, con una laurea in Scienze dell'Educazione e della Formazione Primaria in arrivo.

È dura ricominciare dopo una batosta come quella contro la Scozia che era ampiamente alla vostra portata e che non aveva mai vinto in Italia?
«Sicuramente c’è amarezza perché nel primo tempo siamo rimaste in partita e credevamo di portarla a casa. Nel secondo tempo ci siamo perse. Loro sono riuscite a sfruttare tutte le occasioni, mentre noi non ci siamo riuscite e siamo andate in down commettendo tanti errori banali. Questo a livello internazionale si paga tanto e in più abbiamo quasi sicuramente perso l'occasione di arrivare al terzo posto nel Torneo dietro le imbattibili Inghilterra e Francia».

Sabato 27 aprile alle 13.15 (Sky Sport e Now) affronterete il Galles, che partita si può prevedere?
«Fisica. Siamo al Millennium, considerato da tutti lo stadio più maestoso del mondo del rugby. Loro giocano in casa e finora le hanno perse tutte (l'Italia ha battuto l'Irlanda, ndr). È la loro ultima occasione e saranno agguerrite. Noi però vogliamo vincere a tutti i costi per l'orgoglio e perché se l'Irlanda batterà la Scozia c'è ancora qualche possibilità di arrivare terzi per qualificarsi direttamente alla Coppa del Mondo. Le gallesi sono molto forti e pesanti con il pacchetto di mischia. Sarà fondamentale stare attente in fase di conquista».

Avete le caratteristiche adatte per metterle in difficoltà?
«Sì, assolutamente. Lo abbiamo già fatto in passato, il Galles è una squadra che è cresciuta tanto, ha cambiato tanto, ma anche noi abbiamo tante giovani. Abbiamo tutte le carte in regola per portare a casa la partita come abbiamo fatto in passato».

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Finora ha messo a segno 51 placcaggi sbagliandone solo uno, un record. Che preparazione serve, oltre al coraggio?
«Il segreto non lo so, sicuramente da quando c’è Francesco Iannucci nello staff del nuovo ct Nanni Raineri abbiamo lavorato tanto sia sul ruolo sia sul collettivo. Avere più chiarezza delle posizioni in campo ci porta a leggere più facilmente ciò che abbiamo davanti e quindi a fare la scelta giusta. Il placcaggio è per eccellenza il gesto che rappresenta il rugby, serve tecnica, ma anche potenza fisica. Soprattutto per noi seconde linee è fondamentale perché dobbiamo essere dominanti fisicamente e vogliamo esserlo anche in difesa facendoci “sentire” dall’altra squadra».

Qual è il gesto tecnico più difficile del rugby?
«Il lancio in touche: cambiano sempre saltatori, schieramenti, posizione nel campo e ci sono tantissime chiamate (giocate, ndr). Vanno coordinati 8 avanti più il mediano di mischia. Credo che quello sia il gesto che debba essere allenato di più, sempre in gruppo».

Già sei anni in azzurro.
«Sono cresciuta tanto. Sono arrivata qui con Sara Barattin che era il punto di riferimento, per me lei era il capitano per eccellenza.

Averla mi ha fatto anche vedere dove volessi arrivare. A oggi, mi sento orgogliosa a essere una delle leader che può essere un punto di riferimento in campo per tutte le giovani che arrivano. Ma è anche responsabilità. Con il mio atteggiamento e l’impegno posso dimostrare loro dove arrivare. Anche io però, dopo tutti questi anni, posso migliorare ancora».

Che differenza c'è fra la vostra generazione e le ultime arrivate?
«Una differenza rispetto a quando sono arrivata io è che le ragazze che si presentano nei raduni hanno già competenze non solo tecniche, ma anche culturali sul rugby. Questa cosa io l’ho maturata più in ritardo. In questi anni il rugby femminile è cresciuto tanto, ci sono più squadre e quindi le giocatrici arrivano più preparate atleticamente. Vedere che i numeri aumentano e ci sono tante ragazze giovani che sognano l'azzurro fa piacere. Fa pensare che si va nella direzione giusta».

Il rugby femminile sta evolvendo?
«Sì. Il rugby è cambiato parecchio. Rispetto al passato oggi c’è molta più preparazione fisica, sia in palestra sia in campo. Siamo seguite, abbiamo la psicologa che penso sia fondamentale. Anche se lentamente, il rugby italiano sta cercando di arrivare ai livelli di Francia e Inghilterra o Nuova Zelanda».

Che cosa manca ancora per colmare questo divario?
«Di sicuro manca il bacino a cui possono attingere Inghilterra e Francia che è molto più ampio, le bambine inglesi lo giocano già a scuola alle elementari, figuriamoci. A noi servono tante bambine che iniziano a giocare rugby. Poi le società avrebbero bisogno di più sostegno per migliorare le strutture. La Federazione già lo fa, ma per migliorare serve di più. Purtroppo, il rugby nel nostro paese non è il calcio e quindi bisogna lavorare e investire tanto. Spero che negli anni riusciremo ad arrivare a quei livelli».

Come convincere le bambine ad entrare nel mondo del rugby?
«Non bisogna fare il paragone con il rugby maschile. Questo è uno sport come può esserlo il nuoto o la pallavolo: non è un qualcosa solo da uomo o da donna. Già togliere il pregiudizio aiuta tanto. Poi bisognerebbe invogliarle a provare. Una volta che lo fai capisci l’ambiente, il gruppo che si viene a creare, il divertimento e tutto diventa naturale. La passione poi seguirà».

Che cosa dire a chi sostiene che il rugby è una cosa da “maschi”?
«Che non è vero. Altrimenti non esisterebbero uomini che praticano sport come la ginnastica artistica o la danza. Non ci sono stereotipi nello sport. Credo che nel 2024 dovremmo smetterla di distinguere tra una cosa e l’altra».

Chi è Giordana Duca nel tempo libero?
«Studio, mi sto per laureare in Scienze dell’Educazione e della Formazione primaria. Finito il Sei Nazioni inizierò un tirocinio in un asilo nido perché, una volta appesi gli scarpini al chiodo, sarò una maestra di nido. Nel mio tempo libero cucino, è una mia passione e mi piace sperimentare, invitare amici e cucinare per loro. È una passione che ho da quando sono piccola e la coltivo. In più lavoro, faccio la baby-sitter di due bambini piccoli e poi il resto del tempo libero lo passo ad allenarmi. Tra studio, lavoro e rugby la giornata è piena».

La partita in azzurro indimenticabile?
«La vittoria a Padova con la Francia, già allora professionista, che ci ha fato arrivare seconde al Sei Nazioni. Non ce lo aspettavamo, sapevamo che potevamo farcela per arrivare terze, ma quando abbiamo vinto e capito che avevamo conquistato il secondo posto siamo state travolte dalla felicità».

Quella con più amarezza?
«La sconfitta con la Francia ai quarti di finale al Mondiale».

Dopo tanti anni nella Capitale ora c'è Padova.
«Bene, Mi manca casa, perché per me Roma è il mio cuore, però mi trovo molto bene sia in città che con le compagne di squadra. Il Valsugana è uno dei club più importanti in Italia. Lavoriamo bene e non mi sono pentita della scelta fatta per crescere a livello rugbistico».

Ci sono differenze tra club del Nord e quelli del Centro-Sud?
«Sì, c’è. Già solo in Veneto ci sono tante squadre di rugby femminile. Nel Lazio poche. È sentito molto di più rispetto a Roma dove il calcio la fa da padrona. Vedo che al Nord tanti bambini, finalmente con l’approccio nelle scuole, cominciano a giocare. La disparità c’è, ma credo che rispetto agli anni passati si stia livellando».

Qualche rammarico per questo Sei Nazioni?
«Io sono rientrata a inizio torneo a causa di un infortunio. Con l’Inghilterra ho giocato poco e l’Irlanda è stata la prima che ho giocato interamente. Un po’ di rammarico c’è perché credo che anche con l’Inghilterra il risultato non rispecchi quella che è stata la partita. Fino al 50’ abbiamo retto bene e le abbiamo messe in difficoltà. Dobbiamo lavorare sulla costanza per 80 minuti perché a questo livello è quello che fa la differenza».

Perché il rugby? In famiglia i fratelli lo praticano.
«In realtà no. Sia mia madre sia mio padre erano pallavolisti. Poi i miei due fratelli Davide e Gianmarco giocano tutti e due, soprattutto il più grande Davide che è stato in Nazionale giovanile. L’ho sempre seguito così come ho fatto con l’altro. Da piccola facevo danza, poi ho fatto nuoto perché era una passione che avevo. Poi nell’adolescenza, in cui non avevo molta voglia di fare sport, ho scelto di smettere col nuoto e con tutto. Un allenatore di rugby di Frascati ha parlato poi con mio fratello, che ancora giocava lì, e gli ha proposto di farmi provare. Tutti a casa pensavano che avrei lasciato perdere subito avendo sempre praticato sport individuali. Dopo il primo allenamento, invece, sono tornata felice e da lì non ho più smesso».

Questo cambiamento da sport individuale a sport di squadra ha giocato un ruolo?
«Sì, una delle cose che mi piace di più del rugby è il gruppo. Siamo tanto insieme, lavoriamo tanto fuori dal campo per poi ritrovarci insieme a fare le cose in allenamento e ci muoviamo in sincronia. È un aspetto bellissimo perché tutte le mie ex compagne di rugby sono rimaste amiche. Il legame è forte».

Che effetto vi fa sfidare squadre come l’Inghilterra e la Francia che sono professioniste a tempo pieno?
«Quando affrontiamo una di queste due squadre sappiamo che sono il top, anche in fatto di pubblico allo stadio e in tv. Abbiamo dimostrato in passato, però, che possiamo metterle in difficoltà. La Francia l’abbiamo battuta più volte. Affrontarle ogni anno è un incentivo: dobbiamo continuare a lavorare per arrivare a quel livello. Non è una cosa che ci demoralizza, anzi, ci dà della motivazione in più».

Il fatto che loro possano concentrarsi di più sul rugby, mentre voi dovete conciliare diversi aspetti come il lavoro e lo studio?
«È un limite. Pensare di fare tutto l’anno quello che facciamo solo durante il Sei Nazioni, ovvero vivere di rugby, sarebbe bellissimo, credo. Dall’altra parte la Federazione negli ultimi anni ci sta aiutando, perché ci hanno fatto contratti che un po' aiutano: c’è stato un bel cambiamento. Non ai livelli della Francia, ma stanno lavorando per arrivare a quei livelli».

Dalle borse di studio del 2020 si è passati al gruppo di 24 atlete con un contratto federale.
«Sì, ma diciamo che il professionismo in Italia non esiste: abbiamo tuttavia dei compensi che ci permettono di concentrarci più sul rugby. Poi io continuo a lavorare perché prima o poi la carriera sportiva finisce e voglio costruirmi un futuro».

Qual è quello scalino da superare per far sì che avvenga questo miglioramento? Quanto tempo ci vorrà?
«È un lavoro che prenderà molti anni. World rugby sta lavorando tanto per far sì che avvenga e la Federazione ci sta lavorando. Sicuramente non è qualcosa che avverrà prima del Mondiale 2025 in Inghilterra e mi auspico che avvenga il prima possibile, ma allo stesso tempo rimaniamo con i piedi a terra. Continuiamo a lavorare non focalizzandoci su questo aspetto».

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