Papa Francesco: «Bello il rugby:
duro ma leale. Andate sempre in meta»

Papa Francesco con il capitano degli azzurri, Sergio Parisse
di Paolo Ricci Bitti
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Venerdì 22 Novembre 2013, 16:21 - Ultimo aggiornamento: 23 Novembre, 18:34

Non ha vacillato, Papa Francesco, quando il pilone azzurro Matias Aguero l'ha improvvisamente stretto in una morsa con entrambe le braccia come solo un omone barbuto di 105 kg pu fare. Non si è irrigidito, Papa Francesco, quando Mauro Bergamasco l'ha baciato sulla guancia destra, come solo un fratello può fare. Non si è sorpreso, Papa Francesco, quando un altro omone ancora più irsuto del primo, Martin Castrogiovanni, dopo aver eccezionalmente fatto pace con il pettine e dopo un incerto inchino (non si sa mai come comportarsi, in questi casi), ha tirato fuori dalle tasche un sacchetto pieno di rosari da far benedire. Non si è tirato indietro, Papa Francesco, quando il tallonatore Davide Giazzon gli ha parlato a lungo, molto a lungo, viso a viso, come solo un amico può fare.

E ha sorriso felice come un bimbo, Papa Francesco, quando il capitano Sergio Parisse gli ha regalato, con grande orgoglio e la faccia della persona più allegra del mondo, la palla ovale uguale a quella con cui oggi alle 15 l'Italia sfiderà l'Argentina all'Olimpico.

Questa volta il terzo tempo è arrivato prima della partita. E a casa del Papa argentino. Tra i marmi e gli affreschi della sala Clementina, che toglie il fiato solo ad affacciarsi, il Pontefice ha ricevuto gli azzurri e i Pumas. Tutti insieme, in nome del rugby e della solidarietà. Era accaduto in agosto con i calciatori delle stesse nazioni, ma l'effetto, con quelle masse in movimento sia pure in eleganti completi scuri sempre sul punto di sparare i bottoni, è risultato amplificato. Papa Francesco si dev'essere davvero sentito a suo agio: gli piace il calcio, non ha mai giocato a rugby (ieri la circostanza è stata chiarita definitivamente) ma ne conosce e ama l'essenza e anche qualche giocatore, come il pilone argentino Marcos Ayerza che è stato suo chierichetto a Buonos Aires. Che bello rivedersi dopo tanti anni.

Per l'Italia giocano poi Parisse, nato in Argentina da genitori italiani, e gli oriundi Gonzalo Canale, Luciano Orquera, Alberto Di Bernardo, Castrogiovanni e lo stesso pilone Aguero: “Ero così emozionato che non ho resistito e così, d'istinto, l'ho abbracciato”. Peccato veniale, questa etichetta andata in frantumi, e assoluzione immediata.

I piloni del rugby, del resto, in Vaticano fanno sempre un certo effetto: nel 2001, alla vigilia di una visita analoga, il ct dell'Irlanda era preoccupato: “Speriamo che Peter (Clohessy, detto sobriamente “la clava”) non chieda a Papa Giovanni Paolo II di confessarsi: sennò resteremo due giorni in Vaticano”.

No, fra Italia-Argentina nessuno ha chiesto dispense speciali al Papa, che è apparso incuriosito anche dalle maglie riceveute in dono e soprattutto dal cap (il cappellino azzurro con fiocco dorato) che rappresenta la presenza in nazionale e che gli è stato consegnato dal presidente della Fir, Alfredo Gavazzi, anche lui parecchio emozionato.

“Ha un carisma fortissimo, immediatamente avvertibile – aggiunge Pierluigi Bernabò, responsabile dei grandi eventi della federazione – ad ogni modo adesso che ha il cap lo possiamo considerare il numero uno fra i nostri convocati”.

“Ha parlato della solidarietà e del gioco di squadra che c'è nel rugby - racconta Parisse – e che deve essere anche nella Chiesa. Essere stati invitati da lui rappresenta un onore che mi porterò dentro tutta vita. Ci ha chiesto di pregare per lui perché si riesca a lavorare come una squadra in Vaticano”.

E non sembrava più finire la fila davanti al Pontefice che ha avuto una parola per tutti gli italiani e tutti gli argentini, compresi i dirigenti e loro accompagnatori. Alcuni Pumas avevano con loro i famigliari, a cominciare dal capitano Juan Manuel Leguizamon.

“Ecco, questo mi è dispiaciuto molto” dice spontaneamente Parisse appena entrato nella casina Pio IV dove i capitani e i presidenti federali hanno incontrato i rarissimi cronisti al termine dell'incontro con il Papa. “Essere invitati qui capita solo una volta nella vita e, quando abbiamo visto che i nostri dirigenti e gli argentini avevano con loro le famiglie, ci siamo rimasti male. Alcuni di noi lo avevano espressamente richiesto (a cominciare dal neocatecumenale Giovambattista Venditti, ndr) per condividere con chi amiamo questo enorme privilegio, ma ci era stato detto che non era proprio possibile. Beh, vuol dire che faremo noi da tramite con i nostri cari e racconteremo loro che cosa ci ha detto il Papa”. Il presidente Gavazzi taglia corto: “Abbiamo seguito il protocollo che ci è stato assegnato”.

Silenzio nella grande sala quando il Papa si avvicina al microfono.

“Lo so che mi avete invitato alla partita di domani all'Olimpico – ha detto il Pontefice al di là del discorso ufficiale – e mi piacerebbe tanto vederla, ma qui non mi lasciano”, chiudendo la frase con uno dei suoi sorrisi che aprono il cuore. Molto gradito anche l'ulivo che gli hanno donato le squadre e che domani sarà portato allo stadio Olimpico dal vescovo Marcelo Sanchez Serondo, cancelliere dell'Accademia delle Scienze sociali, pure lui di Buenos Aires. Gli argentini, dal canto loro, hanno presentato ieri in Vaticano il progetto Scholasoccurrentes che si propone di educare i giovani anche attraverso il gioco del rugby.

IL DISCORSO DEL PAPA

"Cari amici,

vedo con piacere che tra Italia e Argentina ci sono diversi incontri sportivi! Questo è buon segno, segno anche di una grande tradizione che continua tra queste due Nazioni.

Vi ringrazio di essere venuti a salutarmi, con l’aiuto del Signor Ambasciatore, e anche dell’iniziativa caritativa che avete preso.

Il rugby è uno sport molto simpatico, e vi dico perché lo vedo così: perché è uno sport duro, c’è molto scontro fisico, ma non c’è violenza, c’è grande lealtà, grande rispetto. Giocare a rugby è faticoso, non è una passeggiata! E questo penso che sia utile anche a temprare il carattere, la forza di volontà.

Un altro aspetto che risalta è l’equilibrio tra il gruppo e l’individuo. Ci sono le famose “mischie”, che a volte fanno impressione! Le due squadre si affrontano, due gruppi compatti, che spingono insieme uno contro l’altro e si bilanciano. E poi ci sono le azioni individuali, le corse agili verso la “meta”. Ecco, nel rugby si corre verso la “meta”! Questa parola così bella, così importante, ci fa pensare alla vita, perché tutta la nostra vita tende a una meta; e questa ricerca è faticosa, richiede lotta, impegno, ma l’importante è non correre da soli! Per arrivare bisogna correre insieme, e la palla viene passata di mano in mano, e si avanza insieme, finché si arriva alla meta. E allora si festeggia!

Forse questa mia interpretazione non è molto tecnica, ma è il modo in cui un vescovo vede il rugby! E come vescovo vi auguro di mettere in pratica tutto questo anche fuori dal campo, nella vostra vita.

Ma anche voi pregate per me, perché anch’io, con i miei collaboratori, facciamo una buona squadra!

Grazie, e che domani sia una bella partita!"

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