Eppure oggi l'Olimpico sarà di nuovo al completo (almeno 60mila fedeli) come ormai da tempo solo a questo rugby riesce, con la cornice che per di più si allarga all'intero Foro italico trasformato in villaggio per l'accoglienza dei tifosi in festa, fra i quali la cifra imponente di 20mila inglesi: un indotto favoloso per Roma. E senza costare un euro di ordine pubblico. Un filone aureo, il Sei Nazioni, che permette alla Federugby di costruirsi da sola il 95% del proprio budget, ovvero attingendo assai poco alle finanze pubbliche come tocca invece a tanti altri sport assai più vincenti.
La sfida per il rugby italiano è ora quella di resistere nel tempo grazie alla rotta tracciata insieme al ct irlandese Conor O'Shea, in realtà un coordinatore dell'intero movimento che intanto ha fatto appassionare al rugby decine di migliaia di bambine e bambini e i loro genitori, risultato che vale più di un'agognata vittoria degli azzurri. O'Shea è un tipo che sta mettendo amorevolmente a dimora piantine di quercia sapendo che della loro ombra godranno i figli e i nipoti, non certo lui, che pure sta accogliendo in nazionale i primi ventenni frutto di un percorso (club, accademie, franchigie) finalmente bene attrezzato dopo tanti balbettii.
Un progetto non facile da assimilare in tempi e contesti italici, in particolare sportivi, in cui tutto deve maturare in fretta, e pazienza se poi il sapore è agro. Ma chi si fida, chi si è innamorato del rugby pur così poco vittorioso, continua a investire tempo e risorse a cominciare da Cariparma-Crédit Agricole, Renault, DMax e Macron, azienda bolognese che ora veste gli azzurri dopo aver debuttato nel Championship con gli scozzesi. Un terzo dei partecipanti al torneo più anglosassone di sempre, ovvero, è griffata dagli italiani: un altro record da celebrare.
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