Cape Epic, in bici sulle strade più dure del mondo: l'impresa di due perugini

Alessio Mariotti in 52 ore ha concluso la otto giorni in Sudafrica. In gara con l'amico Matteo Baldoni, costretto al ritiro dopo tre tappe

I bikers perugini Alessio Mariotti e Matteo Baldoni alla Cape Epic 2024
di Fabio Nucci
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Martedì 26 Marzo 2024, 11:55 - Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 18:58
PERUGIA - Dopo undici giorni, otto dei quali di gara, oltre 600 chilometri percorsi e 1600 metri di dislivello, l’imprenditore perugino Alessio Mariotti è riuscito nell’impresa di concludere la corsa in mountain bike più estrema del mondo, la Absa Cape Epic che ogni anno si corre in Sudafrica. Un’avventura non solo sportiva. «Per un amatore come me è stata molto di più di una corsa, un’esperienza di vita», racconta Alessio. Un percorso tra bellezze naturali e sudore, panorami mozzafiato e solidarietà. Partito in coppia con l’amico Matteo Baldoni, come portacolori della Fit Racing Perugia, dalla quarta tappa Alessio si è ritrovato a correre da solo, portando comunque a termine quello che è definito il Tour de France della mountain bike. «Abbiamo iniziato col prologo di Lourensford, dove abbiamo attraversato vigneti stupendi, salendo poi sulle colline da dove si può vedere l’oceano da un lato, le montagne dall’altro», racconta Alessio. Un modo per prendere confidenza con le bici e il clima: ad attendere circa 1.500 corridori da tutto il mondo, un inizio autunno decisamente caldo. Il secondo giorno di gara il gruppo si è quindi spostato a Saronsberg. «Eravamo tra bellissime montagne e altipiani ricchi di frutteti, vigne e allevamenti e qui ci siamo accampati svolgendo due tappe con temperature in crescendo e notti fredde e umide». Nello stage 2, la caduta di Matteo che al termine della terza tappa è stato poi costretto a ritirarsi: stage che prevedeva il trasferimento a Wellington con un nuovo camp village. Nelle 4 frazioni che hanno concluso in coppia, Alessio e Matteo (iscritti alla Master uomini) si sono classificati tra il 175° e il 193° posto. La prima tappa in solitaria era anche la più dura delle otto. «Erano previsti 44 gradi, tanto che la direzione di gara ha accorciato il tracciato di 15 chilometri». Una full immersion nell’ambiente, tra i contrasti della natura e quelli umani «Durante la quarta e quinta tappa, vicino a Wellington, abbiamo potuto appurare la differenza fra la grande ricchezza e la povertà atavica del Sudafrica. Molti bambini facevano il tifo chiedendo “sweet please” e per questo ai ristori noi corridori prendevamo qualche barretta in più per regalarla: io mio sono fermato per donare loro anche la mia bandana». Il circuito si è concluso a Stellenbosch col camp village allestito nella nota università in quella che è definita la “Mecca della monuntain bike”. «A differenza dell’Italia, molte montagne sono private e chilometri di sentieri sono realizzati e tenuti con molta cura, per il divertimento (a pagamento) dei bikers». Come tutte le gare estreme, una sfida anche col proprio fisico, tanto che su circa 1.500 partecipanti, circa 360 non sono riusciti a concluderla. «Portarla avanti senza il compagno è stato molto più duro – confessa Alessio - ma il bello di questa gara è che con un semplice pettorale sulla schiena che riporta numero, nome e nazione, durante questi giorni si sono potute fare tante amicizie con persone di tutto il mondo. Tutti pronti a condividere passione e fatica: la cosa più bella di questa esperienza, oltre il risultato».
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